Cercavamo i proiettili nei dizionari/e la polizia ci canta la ninnananna alla scuola Diaz/Sacco e Vanzetti si rigirano sulle sedie elettriche/Nei tuoi occhi annegheremo, e la Digos ci farà un servizio fotografico/Ti lascerai dietro catastrofi. Ma ci sarà sopra il copyright

(Vasco Brondi - "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero")

Appunti filopalestinesi

Occupazione Palestina 1917-oggi

Mentre scrivo questa pagina arrivano le notizie del grave ferimento alla schiena di Salma al-Qadoumi e dell'omicidio di Ibrahim Muhareb da parte dell'esercito israeliano. Muhareb è il 169° giornalista ucciso per aver raccontato quella che sempre più appare come il capitolo finale della pulizia etnica attuata da Israele contro la popolazione palestinese, secondo le cronache atlantiche iniziata come risposta all'operazione terroristica di Hamas del 7 ottobre 2023. Al-Qadoumi è una delle oltre 92.000 persone ferite da un militare israeliano. Entrambi sono stati colpiti proprio in quanto giornalisti.

Secondo i dati resi noti dal ministero della Salute di Gaza pubblicati da Infopal e aggiornati al 19 agosto 2024, 318 giorni da quel 7 ottobre

  • 92.609 feriti
  • 40.099 morti
  • 169 giornalisti/operatori dell'informazione uccisi, dato dell'Ufficio stampa governativo di Gaza. Reporter Senza Frontiere parla invece di 105-130 giornalisti uccisi dal 7 ottobre, il 75% di tutti gli operatori dell'informazione uccisi nel solo 2023, in entrambi i casi è possibile accettare la definizione di "giornalisticidio" coniato dal Sindacato della stampa palestinese

Oltre 2 milioni le persone costrette ad abbandonare la propria casa per effetto delle politiche o delle operazioni militari israeliane, in alcuni casi sfollati anche più di una volta. Bisogna ricordare, inoltre, che ad oggi a nessun giornalista internazionale è permesso entrare in Palestina. A decidere chi, o cosa, può passare i valichi di confine, ovviamente, è il governo israeliano.

Per approfondire:

"Direttiva Annibale": come Israele si è preparata agli ostaggi del 7 ottobre 2023

Mentre il sostegno ad Israele appare granitico ed indefesso tra i piccoli leader del mondo atlantico, grazie al lavoro dei giornalisti palestinesi molte persone comuni continuano ad avvicinarsi, a solidarizzare e ad appoggiare la Resistenza palestinese. Anche alcuni militari israeliani, sottovoce, iniziano ad avere dubbi sulle politiche del loro governo, fino ad ammettere che in quella operazione d'ottobre Israele ha avuto un ruolo fondamentale: "Direttiva Annibale" la chiamano gli alti vertici politici e militari di Gerusalemme e il quotidiano Haaretz che per prime ne rende il nome noto in tutto il mondo.

È una procedura totalmente legale dal punto di vista israeliano, prevista dall’ordinamento giuridico fin dal 1986, che permette ai soldati israeliani dell’IDF (Israel Defence Force, le forze armate israeliane, ndr) di fermare con ogni mezzo il rapimento di militari israeliani, anche se questo significa ferirli o ucciderli. Non ci sono mai stati documenti pubblici su questa Direttiva, che ufficialmente viene ritirata dal capo di Stato maggiore Gadi Eizenkot nel 2016. Ma evidentemente è solo un ritiro di facciata se, come sta emergendo, diventa la cornice operativa anche per l'operazione anti-Hamas del 7 ottobre, dove la Direttiva viene ampliata anche alla protezione dei civili. Una protezione che può portare anche all'omicidio degli stessi rapiti, tutto affinché non vengano catturati dal nemico. A dicembre 2023, davanti al gabinetto di guerra israeliano, sono gli gli stessi ex ostaggi a confermare l'applicazione della Direttiva nell'operazione.

Secondo una versione del testo rivista nel 2006 sono i comandanti sul campo a decidere se applicare o meno la Direttiva che – ufficialmente – vieterebbe di uccidere soldati israeliani. Ma uno Stato che si ostina da decenni ad ignorare l'intero diritto internazionale sembra difficilmente farsi intimidire da questo specifico impedimento. Lo stesso IDF, il 18 dicembre 2023 ammette che le ormai cosiddette "vittime del 7 ottobre" siano state uccise da «fuoco amico». È una scelta etica, poi politica, che arriva dal 2011, quando uno scambio di prigionieri porta la riconsegna di 1.027 prigionieri palestinesi in cambio del caporale israeliano Gilad Shalit, rapito nel 2006.

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Un conflitto censurato ma incensurabile?

Spesso parliamo dell'occupazione illegale israeliana della Palestina quasi nei termini di una guerra dimenticata, censurata. Non è né l’una né l’altra: non è una guerra propriamente detta, perché non si affrontano due eserciti regolari ma una popolazione costretta a resistere ad una occupazione illegale – una operazione speciale...no? – di un esercito che, per rendere ancora più barbara la sua oppressione, ha da tempo nel suo arsenale anche la gestione dell’acqua, dell’elettricità e degli aiuti umanitari. Il conflitto israelo-palestinese, inoltre, è tutt'altro che censurato: ogni dato, ogni informazione è a disposizione di chiunque voglia leggerne ed entrarne in possesso. Ciò che cambia rispetto ai decenni scorsi è, appunto, un pubblico sempre più distratto e sempre meno interessato a ciò che lo circonda, dove è facile piantare il germe della propaganda e della cattiva informazione dei latifondi mediatici. Come quelli che pensano di fare informazione con viaggi gratis sui carri armati...

Ci sono le tante associazioni, palestinesi e filo-palestinesi, che da decenni fanno (contro)informazione, raccolgono fondi e beni per quella popolazione di cui l’Italia fino a non troppi decenni fa poteva considerarsi amica – come le cronache della Prima Repubblica, e la prima era della Seconda, evidenziano con non troppa difficoltà – ci sono attivisti e giornalisti entrati negli anni nei Territori Occupati, anche quando sapevano di poter pagare con il sangue una forma di solidarietà che è anche disobbedienza morale prima che politica, come accade tra gli altri a Rachel Corrie e Vittorio “Vik” Arrigoni, uccisi rispettivamente nel 2003 e nel 2011.

Per approfondire:

Che limiti ha l'impunità di Israele?

Ci sono politici, giornalisti e persone comuni nate e cresciute sotto l'occupazione e che provano a raccontare al mondo cosa vuol dire vivere sotto un regime criminale che occupa illegalmente un territorio nell'impunità e nella complicità del mondo formalmente democratico. Una contronarrazione a chi, invece, racconta quel che avviene all'inoffensivo sole di un albergo a Gerusalemme. Anas al-Sharif, Hind Khoudary e Marah Elwadiya, giornalisti di quella al Jazeera contro cui Israele sembra aver lanciato un capitolo a parte del conflitto - due esempi per tutti: Shireen Abu Akleh e Wael Dahdouh - hanno raccontato la loro storia di giornalisti palestinesi in Palestina in un reportage-documentario: "Reporting under genocide: Six months in Gaza", andato in onda per la trasmissione "The Listening Post" della televisione qatariota il 6 aprile 2024. Un documento che è facile ipotizzare non verrà mai trasmesso dalla televisione italiana, non certo per problemi di traduzione.

Ci sono gli shministim/refusnik - i giovani israeliani che disertano il servizio militare universale perché contrari all'occupazione e alle politiche antipalestinesi del loro governo - ci sono i tanti cittadini israeliani contrari all’occupazione e alla guerra, come i familiari degli ostaggi sempre più contrari al governo Netanyahu, accusato di perpetrare un conflitto in tutto il Medio Oriente pur di mantenere il suo Potere; ci sono rabbini come Yisroel Dovid Weiss che denunciano come una Israele sempre più sionista sia ormai passata dal ruolo di oppresso ad oppressore, imparando molto bene la lezione dai vecchi gerarchi nemici e ci sono i documenti sulla politica di finanziamento e sostegno di "Bibi" Netanyahu alla “nemica” Hamas contro il fronte moderato dell'Autonomia Nazionale Palestinese (Anp).

Hamas, nel frattempo, si riunisce in Cina insieme a Fatah e altre 14 organizzazioni politiche palestinesi per firmare l'"Intesa di Pechino" con cui provare a formare un governo "di riconciliazione" ad interim: un processo più volte tentato nella storia palestinese che oggi può contare, oltre che su Pechino, anche sul sostegno di Egitto ed Algeria.

Il regime del silenzio a sostegno dell'apartheid

C'è lo j'accuse della giurista Francesca Albanese, dal 2022 Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui Territori Palestinesi Occupati, che se l’Italia non avesse la più scarsa e codarda generazione di giornalisti che questo Paese ricordi ad occupare i “grandi” giornali, sarebbe tutti i giorni intervistata da giornali e televisioni per spiegarci perché il credo democratico e il sostegno al «regime di apartheid» istituito da Israele non possano accompagnarsi mano nella mano. Ma alla nostra informazione mainstream ed embedded piace più girare in carro armato, facendosi megafono del Potere, incuranti dell’esistenza di internet e della possibilità, per tutti, di poter verificare le notizie. È più facile essere giornalisti-impiegati che giornalisti-giornalisti, no?

Dal 7 ottobre 2023 è ancora più evidente come questo giornalismo "impiegatizio" aiuti concretamente un regime colonialista che - tra le tante violazioni al diritto internazionale, ad iniziare da genocidio, libertà di movimento, costrizione alla fame e blocco militare - viola da decenni il principio di autodeterminazione del popolo palestinese sancito dalla Risoluzione Onu 1514 del 1960, nota anche come "Dichiarazione sulla decolonizzazione". Proprio la risposta agli attacchi di Hamas di quel giorno porta Israele sul banco degli imputati, per la prima volta nella storia: prima con un parere, penalmente non vincolante, emesso dalla Corte Internazionale di Giustizia de l'Aja; poi, dal 29 dicembre 2023, con un processo penale aperto dalla stessa corte su richiesta del Sud Africa, cui nel giro di poche settimane si aggiungono molti altri Paesi del Sud Globale (e non solo).

Per approfondire:

Penalmente rilevante o meno, questi due momenti hanno impatto non solo sulle trattative per un cessate il fuoco troppe volte violato, ma anche su quella soluzione dei "due Stati" di cui oggi sembrano essersi innamorati tutti i leader atlantici che rischia, però, di proporre uno schema identico a quanto accade oggi ma, grazie alla copertura mediatica a favore, con una facciata di maggior democraticità. Stati Uniti, Russia, Uganda, Guyana, Madagascar, Australia, possedimenti coloniali dell'Italia fascista nel corso della Storia sono stati alcuni dei luoghi proposti per questa soluzione. Tutte scartate in poco più di 100 anni. La domanda è d'obbligo: se le vecchie potenze coloniali hanno rifiutato, perché i due Stati dovrebbero essere la soluzione accettata dalla popolazione palestinese?

Dai Territori occupati allo Stato di Palestina

Il 7 ottobre e il processo muovono anche un'altra novità nel conflitto tra Israele e Palestina: dopo 75 anni di occupazione illegale nel giro di poco tempo 145 Paesi in tutto il mondo - su 193 totali - riconoscono formalmente lo Stato di Palestina. Secondo la Convenzione di Montevideo del 1933, considerata la legge che definisce le regole per la sua creazione, per essere riconosciuto come tale uno Stato deve avere:

  • una popolazione permanente
  • un territorio definito
  • un governo in grado di esercitare la propria autorità
  • capacità di intrattenere relazioni con gli altri Stati

Quest'ultimo è un elemento prodromico e vincolante, anche se la Convenzione non è una legge fissa e i criteri, dalla teoria alla pratica, possono comunque essere meno stringenti. In questo senso il riconoscimento ha una valenza giuridica relativa; ben altra cosa è invece l'aspetto politico: non solo apre un precedente per altri Stati che vogliono essere riconosciuti, mentre nel caso specifico presentarsi come Stato di Palestina potrebbe aumentare il peso politico nelle trattative per il cessate il fuoco e, in generale, nei rapporti con Israele. I riflessi in campo interno sono ovvi, basti considerarne uno: per gli israeliani sarebbe più difficile bombardare o colonizzare aree della Palestina in cui dovessero esserci rappresentanze diplomatiche di altri Paesi. Ad oggi però la Palestina - né l'Autorità Nazionale Palestinese che ne sarebbe autorità ufficialmente riconosciuta, hanno i requisiti necessari. I Paesi che già riconoscono lo Stato di Palestina ne applicano però un quinto: l'autodeterminazione del popolo.

Per approfondire:

Inchiostro e rumore contro la censura degli algoritmi

Per tutto questo ho deciso che Inchiostro Politico non coprirà la "questione palestinese" con articoli e approfondimenti specifici. C'è chi lo fa da più tempo e meglio di come potrei farlo io. Il lavoro che questo piccolo foglio clandestino non è paragonabile alla quantità di informazioni accurate che potresti trovare con un'ora di ricerca al giorno su internet, ancor meglio se puoi aggiungere fonti non italiane. Ciò che invece Inchiostro Politico può fare e farà, tenendo conto dei tempi umani di lavoro, è provare a proporti le informazioni, le storie e i dati più precisi per capire che anche tra Palestina e Israele, esattamente come tra Ucraina e Russia esistono un invaso e un invasore (o un invasato, a seconda di come la si voglia intendere). La differenza tra Vladimir Putin e Bejamin Netanyahu è che quest'ultimo gode di amicizie ben più profonde tra i leaderini cosiddetti "democratici". E questo fa tutta la differenza, politica e mediatica, tra un "dittatore nemico" e un "dittatore amico". Manuel Noriega docet.

Sarà un lavoro sviluppato sui social, su Mastodon ma soprattutto su Instagram per una questione prettamente politica: se l'algoritmo di Meta censura il sostegno al popolo palestinese mentre Google licenzia i propri dipendenti contrari al contratto con Israele noto come "Progetto Nimbus" - sviluppato in partnership con Amazon - diventa ancora più importante essere lì e fare rumore. Così come i dipendenti delle due multinazionali contrari all'accordo, cui si uniscono i lavoratori Microsoft contrari alla fornitura di Azure per la cybersorveglianza antipalestinese, stanno facendo con la campagna "No Tech for Apartheid"

Per approfondire:

Francobolli di Stato (di Palestina)

Può un semplice francobollo essere considerato un atto politico e pericoloso, quasi terroristico?
Khaled Jarrar e Jean Yves Bizien sono due artisti - palestinese il primo, francese il secondo - che nel 2016 senza saperlo si ritrovano a lavorare sullo stesso progetto: la realizzazione di un francobollo sullo Stato di Palestina. Bizien vuole portarlo alla Biennale di Berlino di quell'anno, Jarrar invece ne realizza uno (l'immagine che trovi su questa pagina, ndr) da usare come vero e proprio visto di ingresso nel suo Paese e con cui, girando il mondo, vidima il passaporto di chiunque esprima sostegno e solidarietà alla popolazione palestinese e alla sua Resistenza.

I progetti e l'incontro tra Jarrar e Bizier sono raccontati nel documentario "Palestine Sunbird. A Stamp of Defiance", realizzato proprio nel 2016 dal regista Ayed Nabaa. Il Sunbird, o Nettarinia in italiano, è un uccello tropicale simile al colibrì che si trova anche in Medio Oriente e Africa Subsahariana. Considerato simbolo di libertà, dal 2015 è adottato come uccello simbolo dello Stato di Palestina.

Contro la democrazia spaziocida

Che la si chiami occupazione, che la si indichi come una pulizia etnica o una apartheid, quel che è certo è che l'oppressione israeliana in Palestina è un esempio perfetto - o forse l'esempio perfetto - di "grammatica del Potere", capace di definire tutti gli aspetti della vita della oppressa popolazione palestinese: dai diritti negati, ad iniziare dal diritto alla vita, all'urbanistica "spaziocida", come la chiama l'architetto israeliano Eyal Weizmann.

L'unica democrazia del Medio Oriente - democrazia autoproclamata, a ben guardare - che è il più longevo esempio anche di quanto la Democrazia sia una mera teoria da libro scolastico, sostituita nella vita reale dalla sua versione più cosmetica. L'appoggio atlantico all'apartheid rafforza questa concezione, in un cambio di paradigma che, tanto sul terreno palestinese che sull'asfalto ucraino, permette a industria e politica fruttuosi affari e alleanze, lasciando alle popolazioni niente più che «merda, sangue, morte e dolore».

Una combinazione per cui solo commentatori da divano e bandierina social potrebbero fare il tifo. Purché ben lontani dalle case bombardate, dai danni ambientali e dalle malattie che la Guerra, distruggendo gli ospedali, permette di diffondere.

[ultimo aggiornamento: 23 agosto 2024]