Cercavamo i proiettili nei dizionari/e la polizia ci canta la ninnananna alla scuola Diaz/Sacco e Vanzetti si rigirano sulle sedie elettriche/Nei tuoi occhi annegheremo, e la Digos ci farà un servizio fotografico/Ti lascerai dietro catastrofi. Ma ci sarà sopra il copyright

(Vasco Brondi - "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero")

Prenditela Slow (Journalism). Questa è una rivoluzione

«Lento, però avanzo»: così dichiara la lumaca dal passamontagna nero disegnata su un muro ad Oventic, Chiapas, territorio della Rivoluzione zapatista. Le stesse parole potrebbe pronunciarle anche chi pratica un’altra Rivolta, che sostituisce i fucili con l’inchiostro: slow journalism, lo chiama chi ne fa parte.

Incendiare l’epoca della post-verità: ritorno all’in-formazione

Siamo nell’epoca della post-verità, un’epoca dove il gossip[1] diventa giornalismo, dove si riportano le opinioni al posto dei fatti e i comunicati stampa diventano notizia. Ma soprattutto un tempo oscuro in cui a chi fa informazione si chiede di emozionare e non più spiegare; di solleticare, stuzzicare e non più di informare. O meglio in-formare, con il trattino.

Pur parlando di libri e non di informazione, Massimo Troisi già nel 1987[2] capisce la “potenza” dell’iperinformazione, come la chiamiamo oggi: con l’avvento dei canali all-news – uno dei prodotti meno informativi che siano proposti dalle televisioni – e del giornalismo “da” social (diverso dal giornalismo “sui” social) potremmo passare l’intera esistenza perfettamente immobili davanti ad uno schermo, fissando fattoidi[3] che non sono vere notizie e che si sostituiscono l’uno all’altro in un frenetico ciclo continuo, ma saremmo tutto tranne che cittadini informati.

La disubbidienza critica dello slow journalism

Adottare un approccio slow, raccogliendo la proposta-provocazione di Peter Laufer[4], non significa solo rallentare la creazione e il consumo di informazione, cercando alternative ad un giornalismo che mastica news ai 200 chilometri orari di un reel, ma tornare al fare informazione come «servizio alle persone»[5], che ci si dichiari “giornalista” o “attivista” poco cambia.
Ciò che cambia è invece l’importanza che diamo al tempo, che sia quello della scrittura o della lettura di una notizia: mentre si spacciano brevità e velocità come pratiche di "buona" informazione, nel 2015 The Atlantic pubblica “What Isis Really Wants” che, con le sue 10.500 parole, diventa l’articolo online più letto dell’anno. Rimane un caso isolato negli anni successivi, ma non certo accidentale.

Se l’informazione diventa o torna ad essere in-formazione, con il trattino e se smettiamo di considerare l’idea che basti “il tesserino” per fare il giornalista[6], allora produrre e consumare notizie ritrova il suo farsi anche e soprattutto processo educativo, un costante confronto con opinioni, culture e mondi diversi la cui summa in “pensiero sintetico” – per dirla con il professor Giancarlo Zavalloni[7], teorizzatore della “pedagogia della lumaca” – diventa punto di partenza per lo sviluppo di un reale, ed oggi sempre più necessario, sviluppo di pensiero critico.

Scrive bene chi scrive...ultimo

Decidere di non arrivare più primi su una notizia è, in prima istanza, una forma di rispetto: verso chi legge, ascolta o guarda e verso i fatti stessi che vengono raccontati. Per questo bisogna tornare a dare importanza al tempo dell’informazione, sia quando la si scrive sia quando la si consuma. Cosa capiamo del mondo se ci bombardiamo di news che non ci aiutano a comprendere? Cosa ce ne facciamo di “malainformazione” che rimane solo un riempitivo e passa, anonima, nello scrollare incessante di un social network?

Maleducando invece le persone ad una fruizione sempre più distratta, meno critica e meno esigente, l’industria della distrazione ha soppiantato quella dell’informazione, con giornali e tg che si trasformano in veri e propri diffusori di intrattenimento, notizie non verificate o addirittura false, con l’agenda dell’informazione nazionale riempita di cronaca nera e iper-locale e ignorando completamente la fondamentale “pagina esteri”. Tutto scientemente realizzato per distrarre le persone e distogliere il loro interesse dalla res publica, dal controllo sul Potere e sul suo rapporto con ciò che chiamiamo democrazia rappresentativa.

Come consumatori abbiamo lasciato indebolire il cosiddetto 4° Potere da chi aveva ed ha tutto l’interesse verso un giornalismo disinnescato, che non fa più vera inchiesta né è in grado di suscitare dibattiti che siano davvero utili al rafforzamento della democrazia, qualunque sia l’aggettivo con cui la definiamo. Abbiamo dimenticato, seguendo un’informazione sempre più de-informata, che demos” e “kratos” non si incontrano solo nella cabina elettorale ma, più in generale, all’interno di una comunità che solo perché ben informata può scegliere in piena libertà il proprio destino.

Lo slow journalism ripropone un patto virtuoso ma impegnativo per tutti i contraenti: tornare ad un’informazione di qualità per rendere più consapevole – e dunque più critica – la visione di chi consuma le notizie, ma solo lettori e lettrici consapevoli, formandosi in comunità impegnate, possono (man)tenere alta la qualità dell’informazione come contropotere di controllo. È solo così che si sviluppa, nel miglior modo possibile, il gioco della democrazia.

Fare in-formazione, tra lumache e archeologia

Per tutto questo il logo di Inchiostro Politico parte proprio da una lumaca stilizzata: un doppio richiamo politico-giornalistico al mondo zapatista e del “caminar preguntando” oltre che ad un vecchio settimanale – si chiamava “Carta” – che tra il 1998 ed il 2010, sotto il simbolo chiapaneco della lumaca, rappresenta uno dei nodi centrali del dibattito altermondialista in Italia (qui il sito della rivista, oggi offline, ma recuperabile attraverso la Wayback machine[8]).

nchiostro Politico adotta l’approccio della lumaca e dell’archeologo, per citare Stephen King (o, meglio, Loredana Lipperini[9] in un libro dello scrittore statunitense): qualcosa di simile ad un’escursione zaino in spalla e passo lento piuttosto che quel comodo viaggio sui rettilinei della velocità e della brevità che contraddistingue il giornalismo moderno. Oppure come il lavoro di precisione di chi, letteralmente, è chiamato a togliere la polvere dalla Storia del mondo.

My house my rules: su Inchiostro Politico non trovi aggiornamenti a ciclo continuo ma approfondimenti a puntate; su questo sito non ti propongo notizie-flash né opinioni profonde quanto un tweet – che invece sfrutto come spunti su Instagram – ma storie raccontate attraverso i dettagli, analizzate nel loro contesto, facendo domande ed elaborando ragionamento nella piena libertà di chi non deve rispondere a nessun Potere se non quello dell’accuratezza, della precisione e, soprattutto, della propria curiosità.

Perché continui a consumare cattiva informazione?

Sciatteria, informazioni diffuse senza controllo né verifica e – soprattutto – senza nessun rispetto per l’intelligenza di chi guarda, legge o ascolta: tutto questo oggi sta diventando prassi del giornalismo dei latifondi mediatici[10]. In inglese si definisce Junk journalism, “giornalismo spazzatura”, un modo di produrre notizie che ha smesso di dare valore concreto ai propri contenuti, diventando di conseguenza un insulto non tanto al lavoro quanto all’etica e alla missione[11], per dirla con Tiziano Terzani o Giuseppe “Pippo” Fava, che il giornalismo si è dato. E trasformandosi in un oltraggio alla memoria di chi, per quella missione, ha perso la vita.

Un giornalismo di così scarsa fattura non serve e, soprattutto, diventa nocivo per la salute, la cultura, l’ambiente e la stessa democrazia: così, mentre la costosa inchiesta giornalistica trova in quei latifondi meno spazio dello sport o del gossip, ad informare meglio è oggi chi arriva ultimo, chi si prende il tempo necessario a capire per poter spiegare e torna ad investire nel tempo per produrre e consumare notizie. Perché, come proprio Peter Laufer (ci) chiede: se stiamo imparando a mangiare meglio, perché continuiamo invece ad informarci male?

Fondamentalmente noi dobbiamo ricordarci che l’informazione è un veicolo diretto all’utente, non è un soliloquio da parte del giornalista. Bisogna tenere sempre presente che chi è dall’altra parte del microfono deve poter comprendere una realtà in cui non è presente. Questo, penso, è il massimo sforzo che i giornalisti devono compiere
(Antonio Russo)

Note:

  1. Ovvero una "orrenda forma di inquinamento che ci rende stupidi e cattivi e distrugge la civiltà", come la definiva – perfettamente – lo sceneggiatore Aaron Sorkin in un episodio del telefilm "The Newsroom", andato in onda in Italia su Rai3 dal 2012 al 2014
  2. “Io non leggo mai, non leggo libri, cose…pecché che comincio a leggere mo che so’ grande? Che i libri so milioni, milioni, non li raggiungo mai, capito? Pecché io so uno a leggere, là so milioni a scrivere, cioè un milioni di persone e io uno mentre ne leggo uno…ma che m’mport’ a me?” (tratto dal film Le vie del Signore sono finite del 1987, di cui Troisi è sceneggiatore, regista e attore)
  3. Dall’inglese “factoid”, con questo termine si indicano notizie prive di fondamento ma diffuse a tal punto dai giornali – di qualunque tipo e schieramento siano – da essere considerate come vere da chi legge, ascolta o guarda
  4. Peter Laufer è giornalista, documentarista e docente di giornalismo alla Oregon School of Journalism and Communication oltre che autore del libro Slow News: A Manifesto for the Critical News Consumer, Oregon State University Press, 2014 (in italiano: Slow News. Manifesto per un consumo critico dell’informazione, Milano, Sironi editore, 2011)
  5. La citazione è di Alberto Puliafito, direttore e fondatore del progetto Slow-News.com oltre che autore, con Daniele Nalbone, del libro Slow Journalism: chi ha ucciso il giornalismo, Roma, Fandango, 2019.
  6. Alcuni casi celebri di giornalisti importanti in Italia che non hanno mai preso il tesserino sono quelli di Antonio Russo Mauro Rostagno, Giuseppe "Peppino" Impastato e Giuseppe "Beppe" Alfano
  7. Gianfranco Zavalloni (1957-2012) è stato insegnante, sia di scuola materna che elementare, dirigente scolastico ed è noto soprattutto per aver teorizzato nell’omonimo libro La Pedagogia della lumaca, per una scuola lenta e non violenta, Verona, Emi editore, 2008
  8. La Wayback machine è un archivio digitale – tra i più antichi che si trovano in rete – lanciato nel 2001 – ma attivo già dal 1996 – dall’Internet Archive, un’organizzazione no profit statunitense, come “progetto memoria” dei siti internet. La WM scansiona nel tempo varie versioni della maggior parte dei siti internet (“snapshot”) aperti in tutto il mondo, che mette a disposizione di chiunque ne conosca l’indirizzo
  9. ”Perché le storie sono fossili sepolti, frammenti di mondi altri che ti capitano per le mani in modo imprevisto: la scrittura non è acqua sorgiva che zampilla dalla roccia, ma è impastata di fango. Chi scrive è un cercatore con la faccia rivolta a terra, non ha i capelli al vento e la luce negli occhi di chi si ritiene strumento degli dei[…]Chi scrive lavora su quei fossili e stabilisce legami: fa convergere le cose lontane, e dunque preziose, che vengono da un’intuizione, e fa crescere sino a farne un mondo quel che all’inizio è solo una frase, un’immagine, un profumo”. Loredana Lipperini, in Stephen King, On Writing. Autobiografia di un mestiere, Milao, Pickwick, 2017, p.IX
  10. Scrive il professor Gennaro Carotenuto, a proposito del giornalismo partecipativo: “I cittadini, fino a ieri, come milioni di contadini brasiliani sem terra, erano braccianti dell’informazione che prima di internet potevano solo servirsi alla pulperia dei latifondisti media tradizionali. Il giornalismo partecipativo sottrae spazio all’oligarchia dei media per dividerlo tra i cittadini esattamente come una riforma agraria redistribuisce la terra a chi la lavora togliendola ai latifondisti dell’informazione[…]Usando gli strumenti offerti dalla Rete i braccianti dell’informazione possono impegnarsi, con passione e ingegno, nella cura di piccolissime, piccole o perfino medie particelle di terreno personali, oppure riunirsi in cooperative di piccoli agricoltori” (Gennaro Carotenuto, Giornalismo partecipativo, Modena, Nuovi Mondi, 2009, p.179)
  11. ”Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi non cedendo a trappole facili. La più facile, te ne volevo parlare da tempo, è il Potere. Perché il Potere corrompe, il Potere ti fagocita, il Potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui diventi un suo scagnozzo, no? Un suo operatore. Non mi è mai piaciuto. Il mio istinto è sempre stato di starne lontano. Proprio starne lontano, mentre oggi vedo tanti giovani che godono, che fioriscono all’idea di essere vicini al Potere, di dare del “tu” al Potere, di andarci a letto con il Potere, di andarci a cena con il Potere, per trarne lustro, gloria, informazioni magari. Io questo non l’ho mai fatto. Lo puoi chiamare una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al Potere gli stavo di faccia, lo guardavo e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo, controllavo che cosa non andava, facendo le domande” (Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio, Milano, Longanesi, ed.2006, pp.312-313)