L’Unione-Fortezza europea si militarizza, usando l’Ucraina e i valori occidentali come scusa. Vincono i trafficanti, perdono la volontà popolare e la democrazia. Armi “ucraine” nelle Afriche: perché?
(Credit immagine: @Tjeerd Royaards) |
Gli extraprofitti generati dai beni russi “congelati” – cioè sequestrati – per colpa della guerra in Ucraina reinvestiti per acquistare altre armi da inviare a Kiev: è la proposta che Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione Europea, pone nel suo discorso al Parlamento europeo del 28 febbraio 2024 perché, sostiene, «non potrebbe esserci simbolo più grande e utilizzo migliore». Denari che, è bene ricordare, la classe dirigente russa guadagna in oltre 2 decadi di affari realizzati anche con quei Paesi che, come l’Italia, oggi chiamano Vladimir Putin “criminale”.
Chiunque abbia familiarità con la storia dei beni sequestrati alle mafie sa, però, che miglior uso di quel denaro sarebbe reinvestirli – o reinvestire il denaro a questi connesso – in progetti culturali: «la mafia teme più la scuola che la giustizia», dichiarava già nei primi anni ‘90 del Novecento il magistrato Antonino Caponnetto[1].
Sovrapponendo i due concezioni di “criminalità” le domande sono d’obbligo: perché non investire quel denaro per ricostruire ciò che è stato distrutto e risarcire le famiglie colpite dalla “guerra di Putin”? Risposta concisa: perché finanziare e costruire qualcosa che non sia la Guerra non è negli interessi della parte atlantica – e sempre meno democratica – del mondo.
Militarizzare oltre i militari: su lobby e (dis)istruzione di un’industria falsamente strategica
La risposta lunga parte invece da un fatturato complessivo di 260,5 miliardi di euro per l’industria europea della Difesa iscritto nel bilancio 2022 (+9,8% rispetto al 2021), che registra ricavi totali pari a 240 miliardi secondo i dati resi noti a dicembre 2023 dall’Aerospace Security and Defence Industries europea (ASD), gruppo commerciale e lobbistico che gestisce e tutela gli interessi del settore “armi, difesa e sicurezza” a Bruxelles.
Grandi cifre dietro le quali si nasconde un altrettanto ampio bluff: un’analisi realizzata da Gianni Alioti per Sbilanciamoci.info (di)mostra come poco più della metà dei 240 miliardi (58%) provenga dal business militare propriamente detto, per un impatto reale dello 0,7% sul Pil dei 30 Paesi presi in considerazione dal rapporto ASD (i 27 dell’Ue oltre a Gran Bretagna, Norvegia e Turchia). Settori civili come quello delle automobili – che registra un impatto del 7% sul Pil – sarebbero ben più appetibili per la legge-pilastro del Capitalismo, che permea la cultura atlantica anche nella sua sfera bellica, ma tra 2022 e 2023 l’Unione-Fortezza decide di investire 100 miliardi di euro in armi[2] e meno della metà nell’industria automobilistica, ferma a 59 miliardi complessivi, considerando però l’intera torta di investimenti pubblici e privati.
I dati resi noti da Laetitia Sedou[3], project officer dell’European Network Against Arms Trade (Enaat), indicano come nel 2022 la spesa militare aggregata tra Unione e Paesi europei membri della Nato è stata di 346 miliardi di euro, con un aumento del’1,9% sul 2021 e del 29,4% sul 2014. Oltre 4 volte maggiore rispetto alla spesa in armi di Mosca.
Emblematico delle scelte politiche globali, inoltre, che i 30 Paesi più ricchi al mondo investano più denaro nel commercio di armi che per la sicurezza alimentare globale, lo sviluppo sostenibile o per il contrasto al cambiamento climatico[4]. Come denuncia António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, infatti
possiamo spezzare il legame funesto esistente tra la fame, il caos climatico e i conflitti. E scongiurare la minaccia che queste calamità fanno pesare sulla pace e sulla sicurezza internazionale[...]Se resteremo a braccia conserte, la situazione continuerà a peggiorare. I conflitti si moltiplicheranno, la crisi climatica non potrà che degenerare proporzionalmente all’aumento continuo delle emissioni di gas ad effetto serra. E l’insicurezza alimentare acuta si sta già aggravando di anno in anno
Oltre agli aiuti militari diretti a Kiev, nella “fetta” europea della spesa militare atlantica rientrano anche il Fondo europeo per la Difesa ed il Fondo per le nuove munizioni (Act in Support of Ammunition Production, ASAP), creati per sostenere l’export armato e, di conseguenza, porre l'Unione-urFortezza come responsabile diretta di guerre, terrorismo e criminalità. Vanno poi aggiunti gli stanziamenti per il programma ambientale “Life” - riconvertito per sviluppare armi più ”ambientaliste” e diminuire l’impatto dell’industria sulle emissioni di gas serra – e per militarizzare il fondo Erasmus+, trasformandolo in uno strumento per avvicinare giovani laureati alla “cultura” militare, all’interno di un progetto più ampio per la militarizzazione dell’istruzione e che vede l’Italia come laboratorio.
Est Europa: linea del fronte...o del profitto?
Se esistesse, il “piano militar-industriale” per l’Europa avrebbe l’obiettivo – dichiarato - di raggiungere un peso specifico del 35% nel mercato globale delle armi entro il 2030, riporta Alioti. Intento da raggiungere seguendo 2 strade, ben inscritte all’interno dell’agenda e delle necessità della Nato:
- creando un nuovo ed ulteriore fondo da 1,5 miliardi, che permetterà al comparto militar-industriale del continente di aumentare del 50% la propria capacità produttiva
- “europeizzando” una parte delle catene di produzione di armi oggi sviluppate in Paesi extra-UE, aumentando ad esempio il numero di appalti congiunti tra aziende europee e diminuendo la dipendenza dagli Stati Uniti: una politica che sembra non trovare il pieno appoggio della Germania
All’interno di quest’ultima, alla luce della guerra in Ucraina – e in generale della campagna politico-militare contro la Russia – appare inquietante la decisione della Nato di spostare e sviluppare una parte della produzione militare europea nell’Europa dell’est, Ucraina compresa. Alla fine del 2023 sono già state decise:
- produzione di munizioni per l’Ungheria di Viktor Orbán, “nemico d’Europa” nelle dichiarazioni ufficiali delle cancellerie del continente ma non nei fatti
- manutenzione dei carri armati Leopard alla Polonia, Paese che negli ultimi anni sta concentrando esercitazioni Nato anti-russe e che, con la nuova presidenza europeista di Donald Tusk – alla guida del Consiglio europeo dal 2014 al 2019 – sta diventando non a caso uno dei tamburi di guerra più numerosi
- un ampio piano militar-industrial per l’Ucraina post-bellica, cui saranno affidate la manutenzione e la riparazione di veicoli blindati e la produzione di carri armati, oltre ad un progetto per rendere il Paese indipendente nella produzione di munizioni e nello sviluppo della difesa aerea. Ironico come questo spostamento sfrutterà il vecchio sistema produttivo sovietico, oggi appartenente alla ufficialmente nemica Russia
L’azienda tedesca Rheinmetall Ag – la cui filiale italiana produce le bombe impiegate dall’Arabia Saudita nella guerra in Yemen – ed il gruppo franco-tedesco KNDS, alleata dell’italiana Leonardo Spa, sono chiamate a fare da testa di ponte per uno spostamento produttivo che, giusto o sbagliato che sia, avrà comunque impatto sul sistema occupazionale, dunque sulla questione sociale, dell’intero continente.
Se Čechov spara davvero
“Se nella storia compare una pistola, questa prima o poi sparerà”, recita il principio narrativo della “pistola di Čechov”. Traslando dalla narrativa alla realtà, in chiave antimilitarista è d’obbligo chiedersi: quante pistole dovranno sparare – e stanno già sparando – per giustificare un aumento del 270% della spesa militare sostenuta dai Paesi Nato nell’ultimo decennio? E quante ancora ne dovremmo ve(n)dere in ogni parte del mondo, se i leaderini politici del cosiddetto “mondo dei liberi e giusti”, dovessero prendere sul serio l’obbligo di sacrificare il 2% del Pil nazionale sull’altare della spesa militare atlantica?
Come ti ristrutturo l’Europa per farne carne da cannone (e profitto bellico)
In questa ristrutturazione “armata” commerciale – von der Leyen ne parla esplicitamente nel suo discorso a Strasburgo – avrà un ruolo sempre più centrale il rapporto armi-finanza, con una completa riscrittura delle pratiche della Banca Europea degli Investimenti, destinata a diventare la più importante delle “banche armate”, cardine spesso poco noto di quella ragnatela di rapporti e interessi che permettono all’industria delle armi di esistere sia sul piano commerciale che su quello politico, spesso sovrapposti.
Si rafforza così un rapporto bilaterale in cui alla necessità del comparto militar-industriale di accedere al capitale – come esplicita von der Leyen nel suo discorso – si lega un investimento da 1.000 miliardi di dollari in armi e guerre da parte dei mercati finanziari, dove già operano le principali aziende del settore, tutte o quasi quotate in borsa. La domanda va ripetuta: quante guerre serviranno per trasformare una simile spesa in profitto?
l’Europa sta spostando sempre più la linea della guerra, della chiusura ai migranti e sta indebolendo le prospettive dello sviluppo del Green Deal. A questo vanno aggiunte la ripresa delle politiche dell’austerità – con l’introduzione del nuovo Patto di Stabilità – e una politica monetaria che con la motivazione della lotta all’inflazione, rallenta lo sviluppo e una più veloce ripresa economica del continente
scrive Giulio Marcon su Sbilanciamoci.info, in un articolo-appello per il voto alle prossime elezioni europee del 9 giugno 2024. «In questo contesto», gli fa eco Alioti,
la UE si sta trasformando in una vacca da mungere per l’industria militare, senza alcun dibattito pubblico, senza un adeguato controllo democratico e con la complicità nel processo decisionale della lobby de fabbricanti d’armi
Armi? La peggior scommessa “popolare” possibile
L’azione lobbistica è necessaria in qualunque forma di gestione del Potere, perché il senso vero di questa attività è l’incontro-scontro (nonviolento) tra portatori di interessi anche opposti e che devono, comunque, trovare una quadra. Tra i diversi ambiti in cui i gruppi lobbistici si muovono, quello militare sta mutando profondamente la natura dell’Unione Europea, nata contro la guerra a Ventotene e oggi sempre più convinta nel militarizzare la propria economia, la cultura e la politica, portando Bruxelles a trasformarsi nella seconda Capitale, dopo Washington, di una urFortezza eurostatunitense che, rimarcano tanto Sedou quanto la più basilare conoscenza dei fatti storici moderni, «alimenta guerre e repressione nel mondo».
“From war Lobby to war economy”, rapporto che l’Enaat pubblica a dicembre 2023, mostra come nell’ultimo decennio siano stati centinaia gli incontri dei gruppi lobbistici con membri del Parlamento e della Commissione europea, che nel 2019 crea un apposito Direttorato Generale per l’Industria della Difesa e dello Spazio, da usare come “fornitore di servizi” per la produzione e la vendita delle armi europee. Tradotto: il complesso militar-industriale deciderà per proprio conto politiche e regole sull’industria armiera del vecchio continente, ambito in cui l’Italia può permettersi di dare lezioni sia attraverso il governo che nei rapporti tra Partito Democratico e Leonardo Spa, sviluppati sullo sfondo dell’agenda della Fondazione Med-Or. D’altronde sarebbe ridondante ed ipocrita, a questo punto, continuare a perdere tempo girando porte tra incarichi politici e aziendali, no?
Puntare tutto sulla militarizzazione dell’Unione è una scommessa che non rispecchia affatto l’interesse né la volontà del popolo, come dimostrano le immagini dei telegiornali internazionali: nei prossimi anni questa scelta politica porterà al rafforzamento di quel sistema – appunto lobbistico – che fa sedere allo stesso tavolo industria, politica e mondo militare, che sposterà ancor più denaro pubblico dalla spesa socio-ambientale a quella bellica e, di conseguenza, fomenterà ancora guerre, conflitti e terrorismi.
Puntare sulla produzione di armi significa, inoltre, indirizzare l’economia, la politica, la cultura e la società di un intero continente verso un settore industriale che non partecipa in modo rilevante alla crescita economica e, anzi, rimane in piedi solo grazie al sostegno politico-economico dei Singoli Paesi, che concorrono così a mantenere in piedi un commercio non-etico e illogico, né aiuta a risolvere in modi rilevante il problema occupazionale. A trarre profitto da una politica industriale del genere saranno solamente manager, azionisti delle aziende produttrici e quei politici che da questa industria traggono Potere, elettorale o meno.
Calma piatta nell’indice finanziario della paura?
I mercati finanziari, come per la prima guerra mondiale, stanno sottovalutando il rischio di un conflitto globale?
si chiedeva l’Economist già ad ottobre 2023. In quel momento, si legge nell’articolo, «la possibilità di una guerra mondiale non ha quasi provocato una scossa nei mercati», più preoccupati da questioni come l’eccessivo indebitamento dei singoli Paesi o dalle aspettative sui tassi d’interesse. Temi da tempi di pace, insomma. Due le possibilità: i mercati non credono affatto alla possibilità che la “terza guerra mondiale” diventi un fatto concreto – almeno non nei termini dei due precedenti conflitti globali – e non rimanga invece un mero esercizio di teoria della propaganda, oppure l’esplosione di una guerra di tale portata è considerata ipotesi a basso profitto, nonostante i 1.000 miliardi di investimento nella produzione di armi. Alla luce della “pistola di Čhecov”, lo scenario più inquietante.
Ancor più inquietante, riporta ancora ancora l’Economist, se la Cina decidesse di sfruttare il duplice impegno degli Stati Uniti in Ucraina e al fianco di Israele per aprire un terzo fronte, invadendo – o attaccando in altro modo – Taiwan, dando il via ad un conflitto diretto Washington-Pechino. Quarto fronte se la risposta (obbligata per vari aspetti) dell’Iran contro l’attacco israeliano al suo consolato a Damasco dovesse trasformarsi in un conflitto più ampio. Un secondo dopo, la guerra mondiale sarebbe un dato di fatto, con un pericoloso retrogusto nucleare.
Case study: Che ci fanno le armi “ucraine” nelle Afriche?
Una parte delle armi che il complesso militar-industriale atlantico sta vendendo all’Ucraina è stato ritrovato nel Sahel, Africa subsahariana. A lanciare l’allarme, già nel 2022, è il Presidente della Nigeria Muhammadu Buhari, nell’ambito di un vertice antiterrorismo intrafricano cui partecipano i leader di Ciad, Niger, Repubblica Centroafricana e i rappresentanti di Camerun e Libia.
Conferme alla notizia arrivano sia da un’indagine della società di cybersicurezza israeliana Kela e, soprattutto, da un rapporto del Pentagono, sempre del 2022, secondo il quale sarebbe sparito il 60% delle armi più sofisticate e ad alta tecnologia – le più appetibili dal punto di vista bellico-commerciale – che gli alleati atlantici hanno inviato fino a quel momento a Kiev. È legato anche a questo traffico d’armi il licenziamento di generali e comandanti di vari distretti militari che Zelensky ha ordinato negli ultimi mesi?
Dall’inizio della guerra – ma indagini su traffici illegali d’armi nel Paese si registrano già nel 2011 e nel 2017, armi “ucraine” sono state trovate in vari Paesi delle Afriche, in Estremo Oriente, Asia centrale e sud-est asiatico così come in Norvegia, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi. Tutte commerciate attraverso vari mercati della darknet[5] e trafficate attraverso il porto di Odessa, la Polonia e la Romania. La domanda, a questo punto, è d’obbligo: i Paesi atlantici stanno usando l’Ucraina come bazar per le guerre – e i terrorismi – del futuro?
Questo articolo fa parte della serie "Achtung Disertoren!", l’approfondimento di Inchiostro Politico su antimilitarismo, guerra e diserzione sullo sfondo della guerra in Ucraina. È inoltre il secondo capitolo di "All’arme!", approfondimento sulla militarizzazione dell’Unione Europea.
Note:
- Antonino Caponnetto è stato un magistrato italiano, in carriera si è occupato degli omicidi del “mostro di Firenze” sia, soprattutto, di cosa nostra andando nel 1983 – e fino al 1990 – a dirigere il “pool” antimafia in sostituzione del magistrato Rocco Chinnici, ucciso dal clan Madonia con la prima autobomba che costituirà una costante della cosiddetta “fase stragista” della mafia siciliana. Di quel pool fanno parte Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gioacchino Natoli, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta
- Termine ombrello con cui, per brevità, da questo momento indicherò l’insieme di armamenti, munizionamenti ed equipaggiamenti militari
- Dati ripresi dal rapporto “Climate Collateral. How military spending accelerates climate breakdown”, Mark Akkerman, Deborah Burton, Nick Buxston, Ho-Chih Lin, Muhammed Al-Kashef, Wndela de Vries peer Tipping Point North South, Stop Wapenhandel, Transnational Institute, Global Campaign on Military Spending, novembre 2022
- L’analisi di Sedou mostra inoltre come 7 dei Paesi con la più alta spesa militare siano anche tra i primi 10 Paesi più inquinanti. Si tratta di Cina, Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia, Giappone e Germania
- Una “darknet” è una rete privata di internet, non indicizzata da Google – dunque invisibile a motori di ricerca – cui è possibile accedere solo attraverso un browser specifico, come Tor, capace di leggere siti “.onion”: i latifondi mediatici ne parlano come del “lato criminale della rete”, ma in questa parte di internet si trovano anche siti di alcune biblioteche o database di varia natura
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti sono moderati. Per partecipare alla discussione devi accedere con il tuo account Google. Lo spam, messaggi con link diretti, di natura antiscientifica, delirante o simili non vengono pubblicati: evita di perdere tempo a scriverli ed inviarli. La responsabilità di ciò che scrivi, anche penale, è e rimane solo tua. My house my rules