Risorse o Democrazia? Mentre il Potere si spartisce l’Ucraina, tra Kiev e Rafah i popoli aprono riunioni di dissensi contro i propri leader, impauriti da un nuovo “terrorismo”: il dialogo tra nemici
(Credits: Carlos Latuff per Mondoweiss.net) |
Sconfiggere la Russia, obiettivo unico e ufficialmente dichiarato che il Potere atlantico inscrive nella guerra in Ucraina, non ha niente a che fare con i diritti umani violati né con il rispetto di una Democrazia che, a ben guardare, è ormai esercizio teorico anche tra quei Paesi che ne vantano l’esportazione. Nessuna guerra decisa tra classi dirigenti, nessun conflitto che non sia lotta di liberazione del popolo contro l’oppressore se ne interessa davvero. Sconfiggere la Russia, nell’agenda politica ed economica di Washington e Bruxelles risponde ad un unico obiettivo, che è poi legge aurea di qualunque guerra: spartirsi risorse e ricostruzione post-bellica del territorio.
La grande spartizione
C’è un piano di spartizione del territorio ucraino vecchio di almeno 10 anni: Vladimir Putin è già da tempo capo di un regime repressivo e antidemocratico, ma tra politici e latifondi mediatici non è educato dirlo a voce alta. A diffondere il piano è Vladimir Zhirinovsky, nel 2014 vicepresidente della Duma – il Parlamento russo – inviando a Polonia, Ungheria e Romania una proposta che, secondo la ricostruzione fatta da Giovanni Catelli per East Journal, prevede:
- l’Ucraina orientale, oggi al centro della guerra, sarebbe andato alla Russia attraverso quei referendum popolari che la politica atlantica denuncia essere stati fortemente indirizzati da Mosca manu militari: grazie alla presenza della regione del Donbass, ricca di risorse naturali, questa è la zona più appetibile per gli interessi economici e finanziari stranieri
- l’Ucraina occidentale sarebbe diventata uno Stato autonomo o suddiviso tra Polonia (cui sarebbero andati Leopoli, Trenopil, Ivano-Frankivsk), Romania (Chernivtsi) e Ungheria, che avrebbe acquisito la regione Transcarpatica
- l’Ucraina centrale sarebbe diventata uno Stato autonomo, definito come “area cuscinetto” per evitare la formazione di un confine comune tra Russia e Nato: proprio questo aspetto è oggi uno dei pilastri ufficiali su cui si regge la guerra
Dell’area orientale, negli schemi geopolitici russi – ma nei fatti accettati anche dai Paesi atlantici – viene considerata anche la regione meridionale della Crimea, fondamentale per il controllo del Mar Nero e soprattutto dei suoi idrocarburi, tornata sotto il controllo di Mosca con il referendum popolare del 2014 e, dal punto di vista territoriale, con quel ponte di Kerch distrutto dall’Ucraina con il bombardamento del 17 luglio 2023.
Quali diritti difende, davvero, la guerra a Putin?
Un’area che va dal confine nord con la Bielorussia fino alle sponde del Mar d’Azov, nel sud del Donbass, nel cui terreno si trovano 97 tipi di minerali diversi, redistribuiti in 20.000 tra depositi e siti minerari: i geologi la chiamano “scudo ucraino”, i Paesi belligeranti “bottino di guerra”. Eccoli svelati i veri “diritti” che il Potere atlantico va oggi difendendo con la campagna militare d’Ucraina. È uno schema già visto con la guerra in Afghanistan, mossa anche per interesse delle case farmaceutiche preoccupate per il divieto di coltivazione dell’oppio imposto dal regime dei talebani; sul Donbass, oggi, oltre al complesso militar-industriale si muovono gli interessi di tutte quelle produzioni industriali che fanno profitto con le risorse minerarie.
Oltre a carbone (100 miliardi di tonnellate), petrolio (135 milioni t) e gas – con riserve conosciute per 1,1 trilioni di m3, nel terreno della regione si trovano anche, secondo quanto riporta Giuliana Ferraino sul Corriere della Sera
- ferro (10% delle riserve mondiali)
- manganese, di cui grazie alla regione del Dnipro l’Ucraina è la più grande riserva europea
- titanio, che con la presenza del 6% di riserve mondiali permette al Paese di coprire il 20% dell’intero mercato
- uranio (20% delle riserve mondiali)
- grafite (18%)
- caolino, roccia sedimentaria usata ad esempio dall’industria cartaria, da quella farmaceutica e alimentare così come nell’edilizia e nella ceramica, di cui l’Ucraina ha la più grande riserva al mondo
Alla lista vanno aggiunti lo shale gas – basato sui giacimenti di carbone e gas metano e controllato fin dal 2013 dalla Chevron – e soprattutto terre rare come berillio, litio, tantalio, niobio, neon o zirconio che già oggi rappresentano il petrolio per le future guerre “umanitarie” in quanto centrali nell’industria dell’high-tech e nell’economia “verde”. Chi avrà il controllo di queste risorse – fulcro dello sviluppo del mondo nei prossimi decenni – avrà un vantaggio economico e dunque politico di non poco conto. Appare dunque una pura “casualità” che nella lista delle prossime priorità belliche dei Paesi atlantici ci sia la Cina, che prima della guerra in Ucraina stava per dar vita, attraverso la Cheng Xin Lithium, al primo giacimento europeo di litio battente bandiera di Pechino?
Distruggere per ricostruire: il grande business della ricostruzione post-bellica
Ritardare l’accordo con Putin – soluzione che ad un certo punto dovrà essere raggiunta, per condizione logica – significa per l’economa atlantica provare a raccogliere quanto più profitto possibile dai 411 miliardi di dollari che la Banca Mondiale stima saranno spessi per la ricostruzione dell’Ucraina nel decennio successivo alla conclusione vera della guerra. Letta dal lato oscuro, significa suddividere una gigantesca torta per la ricostruzione tra aziende multinazionali (650 quelle italiane) provenienti da quegli stessi Paesi che hanno materialmente concorso alla guerra e alla devastazione del Paese.
Est industriale e ancora legato al passato sovietico “contro” ovest agricolo, con velleità europeiste inscritte, però, in una forte vocazione nazionalista: è questa la condizione socio-economica con cui l’Ucraina entra in guerra nel febbraio 2022. Oggi la parte orientale, in cui si concentra(va)no industrie e risorse naturali, è in parte controllata e in parte bombardata da Mosca: perdere quest’area costringerebbe i governi di Kiev a concentrarsi su una dimensione agricola anch’essa colpita dal conflitto, sia dal lato produzione che da quello commerciale, lasciando potenzialmente uno de pilastri della futura Ucraina post-bellica in balia delle fluttuazioni dei mercati e della speculazione, finanziaria o alimentare che sia.
Con questo scenario, sommato alla situazione di stallo militare che potrebbe trasformare la guerra in una storia senza fine, è plausibile che il futuro economico dell’Ucraina rischi di essere quello di uno Stato fallito, sulla scia di Paesi come la Somalia e, a conoscere la Storia, dello stesso passato del Paese. E questo potrebbe portare ad uno scenario “iracheno” per la sicurezza interna, appaltata e ancora appaltabile a società di contractors esterne.
Ciò trasformerebbe l’Ucraina post-bellica in un protettorato, di chiaro stampo nazionalista antirusso e guidato dal Capitalismo più sfrenato, un Paese tenuto al limite del fallimento da quei Paesi “sponsor” che, da investitori, si arrogherebbero il diritto di esprimerne la composizione dei gruppi al Potere e al vertice della classe dirigente: nei fatti è quanto avviene negli ultimi anni di “occidentalizzazione” dell’Ucraina prima della guerra. Il rischio, dietro alla annunciata impossibilità di sconfitta per Kiev e di trattative con Mosca, è che il Paese uscito dalla guerra possa assomigliare molto ad un narcostato – qualcosa che abbiamo già visto accadere in Kosovo - ma con il traffico di armi al posto della droga.
Gas non olet (nemmeno la guerra, pare)
C’è però anche un altro scenario per il futuro dell’Ucraina, plausibile per pragmatismo e destinato a riscrivere i rapporti Washington-Mosca: il ritorno della Russia di Vladimir Putin nell’alveo dei Paesi “amici” del Potere atlantico, che sia in funzione anticinese o per quel gas importato in Europa anche quando i leaderini del continente, a microfono aperto, ne dichiaravano il blocco totale. Nei fatti il gas “sanzionato” viene sostituito dallo stesso gas russo, ma liquefatto (Gnl) che nei primi 9 mesi del 2022 – 7 dei quali di guerra – vede l’export verso i Paesi europei aumentare del 46%, registrando livelli addirittura «record» nel 2023 quando, stima l’ong Global Witness[1], il valore delle importazioni è di 5,3 miliardi di euro (22 milioni di m3 di Gnl acquistato, contro i 15 milioni del 2021). Una situazione che non sembra possa cambiare nei prossimi anni.
Per approfondire:
- Europe’s plan to wean itself off Russian fossil fuels by 2027 has a major flaw -Huileng Tan, Business Insider, 31 agosto 2023
- Eu imports of Russian LNG jumped by 40% since the invasion of Ukraine – Jonathan Noronha-Gant, Global Witness, 30 agosto 2023
È questa ipocrisia che muove quella “rivoluzione” – mai trasmessa[2] dai latifondi mediatici atlantici – che fin dalle prime fasi della guerra in Ucraina sta portando avanti il Sud Globale[3] ed iniziata proprio aiutando Mosca a limitare gli effetti – invero già scarsi – delle sanzioni economiche volute, e spesso aggirate, dai Paesi atlantici.
Se il nord del mondo scricchiola al “Niet!” del Sud Globale
La guerra in Ucraina si trasforma in poco tempo in un chiavistello antiegemonico, rafforzato dalla forte presa di posizione filo-palestinese di molte piazze, strade e università del “Nord Globale” e formalmente democratico. Una (ri)unione di dissensi che, scrive Michael Lind su The New Statesman il 16 settembre 2023, pone fine alla cosiddetta “pax americana”[4]. «Il mondo è più grande dell’Occidente», amplia il discorso Luciano Canfora su l’Unità (7 aprile 2024): «tre quarti dell’umanità non ne può più».[The last days of Pax americana].
Il punto di svolta, almeno nella narrazione atlantica, arriva il 2 marzo 2022: convocati per decretare la condanna unanime contro Mosca, dagli scranni dell’Assemblea Generale dell’Onu 40 dei 193 Paesi membri non si allineano al dettato di Washington. 5 Paesi votano contro – la stessa Russia, naturalmente, oltre a Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord e Siria – o astenendosi dal voto, come fanno i restanti 35 Paesi dissidenti, tra cui potenze come Cina e India.
Per molti governi del Sud Globale non schierarsi con Washington risponde a una logica di precauzione e pragmatismo, rafforzata dallo scontro diretto tra Israele e Iran: Paesi come India, Turchia o Brasile sanno di poter entrare con estrema facilità nella lista dei “nemici della Democrazia” che Washington aggiorna con una certa regolarità. Per molti di questi Paesi, inoltre, lo sviluppo socio-economico dipende in modo sostanziale dalla capacità di mantenere buoni rapporti con tutte le potenze che muovono la scacchiera degli equilibri internazionali e, soprattutto, i flussi economici e finanziari che questi spostano quotidianamente.
Con la guerra in Ucraina prima e le proteste contro l’ennesimo – e finale? - capitolo del genocidio palestinese emerge anche nell’emisfero settentrionale la messa in stato d’accusa dell’atlantismo da parte del Sud Globale, un processo avviato già da decenni, e ben noto fuori dai “nostri” confini, che pone al centro il “doppio standard” su cui si fonda il sistema di valori atlantico. Un meccanismo che muove guerra a un criminale-ma-nemico come Putin mentre protegge, fino a farsene megafono, i crimini commessi da un genocida-ma-amico come Benjamin Netanyahu (ma anche Erdogan, al-Sisi, et similia) primo ministro di Israele oggi imputata per genocidio in un processo che la Corte Penale Internazionale de l’Aja apre nel gennaio 2024 su richiesta del Sud Africa.
In morte del “fondamentalismo democratico”
Tra Donbass e Palestina in questi 2 anni sembra essersi creato un punto di svolta nella Storia, quella che nei libri di storia si scrive con la maiuscola: a concludersi, riprendendo Lind, non è tanto la “pax americana” quanto quel “fondamentalismo democratico” di cui già nel 1991 parla il giornalista e scrittore Gabriel García Márquez definendo con questo termine quell’ideologia politica che pone la democrazia liberal-parlamentare come modello organizzativo perfetto e, per questo, degno di essere esportato verso comunità “altre” e, per definizione di contrarietà, “inferiori”. Scrive lo storico Paul Kennedy su The New Statesman il 20 settembre 2023.[The Rise and Fall of the Great Powers redux].
Nel 1943 il segretario alla guerra di Franklin D. Roosevelt, Henry L. Stimson, aveva osservato che non c’era un posto al mondo che non fosse “letteralmente negli interessi degli Stati Uniti…”. In futuro, almeno così sembra, ci saranno molti posti in cui questo semplicemente non sarà più vero. La copertura di sicurezza americana sarà più stretta, più piccola, limitata a luoghi ben noti come l’[area] Nato-Europa, il Giappone, l’Australia, Israele, la Corea, forse Taiwan e non molto altro
«La forza relativa delle nazioni leader negli affari mondiali non rimane mai costante», continua Kennedy nella sua analisi. Lo scenario che si sta delineando dal 24 febbraio 2022 pare scommettere contro l’unipolarismo atlantico, che va smantellandosi tra Ucraina, Territori palestinesi occupati e quel Sahel che sta diventando «crogiolo del fallimento occidentale», come scrive il 18 agosto 2023 Robert D. Kaplan su The New Statesman. [Anarchy unbound: the news scramble for Africa].
Lo scenario, a questo punto, si è completamente ribaltato: Russia e Cina, poste alla guida di un nuovo “Asse del male”[5], ricoprono il ruolo di cattivi solo per una parte ridotta del pubblico in sala, mentre la maggioranza accusa Stati Uniti ed Europa di arrogarsi il ruolo, ormai anacronistico, di «regolatori etici mondiali», come li definisce Michael Brenner su Asia Times (29 marzo 2024): «quel sentimento ha lasciato il posto a un totale disgusto di fronte a questa sfacciata ipocrisia», continua Brenner sottolineando come nei Paesi esterni alla urFortezza le politiche filo-ucraine e filo-israeliane tenute dall’asse Washington-Bruxelles abbiano rafforzato la posizione “emancipatoria” del Sud Globale. Tanto che per gran parte della popolazione mondiale, il “Male”, arriva proprio dalla ”nostra” parte del globo politico. [This is the way the West ends].
Se il popolo diventa un’arma di distruzione di massa
«Il dittatore non ammette la sua stessa dittatura», scrivono Ouejdane Mejiri e Afef Hagi in La rivolta dei dittatoriati[6]: il loro riferimento è Zine El-Abidine Ben Ali, ex dittatore della Tunisia tra il 1987 e il 2011 – e grande amico dell’Italia – ma il concetto può ben adattarsi alla ristrutturazione militar-repressiva che le istituzioni europee stanno attuando da qualche anno, attraverso una road map che è stata improntata prima su migranti e sex workers, poi sul dissenso interno e che oggi svela il suo vero scopo: assicurare profitti al comparto militar-industriale, un “nanetto” in economia ma tra i settori più potenti a livello politico-lobbistico.
Cosa possiamo fare in questa situazione, noi comuni cittadini e cittadine che non siamo stati-e consultati-e, quando è stato deciso di dare inizio alle ostilità? Veramente molto
(Si) chiedono in un appello del 2022 le volontarie del Comitato delle madri dei soldati russi[7], da decenni una delle voci più potenti ad opporsi al regime di Vladimir Putin: aprire una «breccia nel potere assoluto», risponderebbero Mejiri e Hagi in un plausibile dialogo internazionale su guerra, disarmo e diserzione.
Rompere la «sottomissione collaborativa» del popolo con il Potere non può che essere la prima di queste brecce. In Critica della democrazia occidentale[8], l’antropologo anarchico David Graeber denuncia come “il popolo”, «evocato come l’autorità che sta dietro l’uso della violenza», venga usato per giustificare veri e propri atti criminali e di terrorismo di Stato, tutto in nome dell’umanitarismo, della Democrazia e dei diritti umani, considerati universali – dunque da proteggere ad ogni costo – finché combaciano con i sempre più fraintesi valori occidentali. In questo senso, quella che Graeber mette sul banco degli imputati è una democrazia degli “specchi deformanti”, che il Potere usa per rinchiudere la volontà popolare nel solo momento elettorale. Chi sostiene il contrario diventa “il terrorista”.
Alfabetizzare (e imbarazzare) all’antimilitarismo, dal basso
All’inizio della guerra in Ucraina c’è anche chi, quella sottomissione prova a romperla, creando spazi politici di «mutua assistenza» transfrontaliera: lontano dall’occhio del Potere nazionale e fuori dall’interesse dei latifondi mediatici atlantici, obiettori, disertori e persone comuni auto-organizzano pratiche di antimilitarismo di varia natura, da quelle più violente – come le molotov contro gli uffici di arruolamento – a forme di organizzazione, condivisa e nonviolenta, per la gestione dell’alimentazione e della logistica, fino alla momentanea adozione dei militari russi da parte delle famiglie ucraine.
Di questi atti – “sovversivi” secondo il Potere, naturalmente – nei primi mesi di guerra ce ne sono tantissimi: tra il 24 febbraio ed il 30 giugno 2022 sono addirittura 235 gli atti di non-collaborazione tra la popolazione e i vertici politico-militari di Kiev e Mosca. Atti «imbarazzanti» li definisce il professor Felip Daza Sierra, che firma il rapporto Ukrainian Nonviolent Civil Resistence in the Face of War, realizzato con la fotografa Lorena Sopena per l’Istituto Catalano Internazionale per la Pace (ICIP) e l’Istituto Internazionale per l’Azione Nonviolenta (NovAct).
Sono atti come questi, come il lavoro di informazione del Comitato che aiuta i familiari dei soldati fornendo loro informazioni di vario tipo e, soprattutto, insegnando loro come denunciare l’esercito o evitare l’arruolamento ai propri cari, che tra marzo ed aprile 2024 costringono sia l’Ucraina che la Russia a ricorrere all’arruolamento forzato dei cittadini. È il materiale antimilitarista clandestino prodotto dal Movimento degli obiettori russi, ad esempio, a permettere alla giovane Nastya di presentare in maniera corretta la documentazione che permette a Misha, l’altrettanto giovane marito, di esercitare il suo diritto all’obiezione di coscienza.
Azioni che hanno due scopi principali: rompere la narrazione mediatiche di guerre che, secondo i latifondi mediatici, sono combattute nell’unità d’intenti tra le popolazioni e i loro leader e diffondere le idee, i progetti e gli obiettivi di quelle associazioni che dichiarano, in modo attivo, il loro “Nossignore!”.
Dialogare tra “nemici” per demolire il militarismo?
Mentre Ursula von der Leyen chiede di aprire una «conversazione» sulla possibilità di usare gli extraprofitti russi per acquistare armi da inviare all’Ucraina, le donne del Comitato si concentrano sull’importanza di altre conversazioni, capaci di creare reti tra «compagni di sventura», aiutando il dialogo tra reduci, figli, madri di altri militari, anche quando questi appartengono al “nemico” dichiarato. Anzi, soprattutto in questo caso perché, dicono, «nessun uomo sano di mente può sostenere la guerra».
Questo articolo fa parte della serie "Achtung Disertoren!", l’approfondimento di Inchiostro Politico su antimilitarismo, guerra e diserzione sullo sfondo della guerra in Ucraina. È inoltre il terzo capitolo di "All"arme!", approfondimento sulla militarizzazione dell’Unione Europea.
Note:
- Global Witness è una ong fondata nel 1993 a Londra con lo scopo di indagare sui rapporti tra risorse naturali, guerre e corruzione oltre che sulle violazioni dei diritti umani e ambientali da parte di industrie come quella gaspetrolifera, mineraria, del legname, dei diamanti o del cacao
- Il riferimento è a “La revolución no será televisada“ (in italiano “La rivoluzione non sarà mandata in onda”), documentario realizzato nel 2003 da Kim Bartley e Donnacha Ó Briain, sul modo in cui gli organi di informazione privata del Venezuela raccontano, in chiave propagandistica, il breve colpo di Stato – avviato l’11 aprile 2002 e durato a malapena 3 giorni - guidato dall’allora imprenditore ed economista Pedro Carmona contro il governo, guidato dal tenente colonnello Hugo Chávez (il documentario, in versione integrale e in spagnolo, lo trovi su YouTube)
- Il termine nasce negli anni ‘70 del ‘900, all’interno degli studi sul postcolonialismo, per indicare non tanto il “sud del mondo” come concetto geografico – semplicemente: i Paesi che si trovano sotto la linea dell’Equatore – ma una concezione politica che ingloba quei Paesi accomunati da una condizione di ex-colonie e da condizioni economiche di non ricchezza e diseguaglianza sociale ed oggi impegnati a costruire istituzioni, politiche e alleanze in opposizione al “Nord Globale” dei Paesi un tempo colonizzatori
- Dal punto di vista storiografico, il termine indica nient’altro che il lungo periodo di pace in Occidente che va dalla fine della 2° guerra mondiale (1945) proprio alla guerra in Ucraina (2022); dal punto di vista politico, invece, il termine indica – per lo stesso periodo – la gestione della politica estera da parte degli Stati Uniti secondo criteri “bipartisan” di egemonia e imperialismo, allo scopo di tutelare i propri interessi economici in tutto il mondo, ricorrendo quando necessario anche a golpe e terrorismo di Stato: l’esempio più noto è il “Plan Cóndor”, applicato in America Latina da Washington tra il 1973 ed il 1997, come certificano i più recenti studi sul tema
- Ideata dal Presidente statunitense George W. Bush nel Discorso sullo stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, l’espressione indica gli allora “nemici” dell’Occidente, identificati nell’Iraq di Saddam Hussein – e invasi dagli eserciti eurostatunitensi nel marzo 2003 – l’Iran e la Corea del Nord. La Russia, già guidata da Vladimir Putin, è ancora considerata un Paese amico, mentre oggi guida il “nuovo” Asse del male di cui fanno parte, nell’agenda dii Washington, anche Cina, Iran e Corea del Nord
- Ouejdane Mejiri e Afef Hagi, “La rivolta dei dittatoriati”, Messina, Megea editore, 2013, pp. 75, 124-127
- Nato nel 1989, il Comitato diventa noto a livello internazionale soprattutto per l’opposizione alla guerra in Cecenia, portata avanti da Mosca tra il 1999 ed il 2009 (la prima elezione di Vladimir Putin alla presidenza del Paese è del 2001). Spesso arrestate per aver bloccato il traffico come pratica di pressione sulle autorità, sembra essere mirata alle volontarie del Comitato la legge del 2012 contro il finanziamento delle ong russe da parte di “agenti esterni”: quando la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiara che la legge viola il diritto alla libertà di associazione, riunione ed espressione, Mosca esce dalla Cedu non riconoscendone più la giurisdizione
- David Graeber, “Critica della democrazia occidentale”, traduzione Alberto Prunetti, Milano, Elèuthera, 2019, pp.109-111 (originale: There never was a West, or, Democracy emerges from the spaces in between, AK Press, 2019). Graeber è stato antropologo culturale, accademico e attivista anarchico statunitense, il cui lavoro diventa noto a livello mondiale soprattutto con la sua partecipazione al movimento Occupy Wall Street. È autore, tra le altre, di una monografia antropologica sui primi 5000 anni del debito
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