Cercavamo i proiettili nei dizionari/e la polizia ci canta la ninnananna alla scuola Diaz/Sacco e Vanzetti si rigirano sulle sedie elettriche/Nei tuoi occhi annegheremo, e la Digos ci farà un servizio fotografico/Ti lascerai dietro catastrofi. Ma ci sarà sopra il copyright

(Vasco Brondi - "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero")

domenica 18 agosto 2024

"Cadono sull'erba mille bravi contadini" [Achtung Disertoren! #1]


I leader eurostatunitensi lustrano truppe e contratti per la nuova guerra "umanitaria", applauditi dall'Europa dei guerrafondai da divano. Criminali, così, diventano Pace, antimilitarismo e diserzione


Non fate la guerren, fate la kakken! - Sturmtruppen
Grazie Bonvi per averci regalato le Sturmtruppen
[…]Nessuna distinzione possibile può essere fatta tra guerre offensive e guerre difensive[…]Ognuno fa del suo meglio per produrre i documenti più incontrovertibili e decisivi per mostrare la sua buona fede e presentarsi come l’immacolato difensore del diritto e della libertà il campione della civiltà[…]No, nessuno dei belligeranti è autorizzato a utilizzare il termine civiltà o a dichiarare di avere agito per legittima difesa.
(Manifesto contro la guerra, Internazionale anarchica, 1915)

Morte obbligata di un futuro disertore

«Non sono pronto ad uccidere per nessun ideale»: così, in un epitaffio lanciato su Telegram, scrive Ivan “Walkie” Petunin, rapper pacifista russo suicidatosi il 30 settembre 2022 lanciandosi dalla finestra del suo appartamento a Krasnodar, in Russia. Aveva 27 anni e una fede incrollabile nella possibilità che quel conflitto che va infiammandosi lungo il vecchio confine tra il mondo atlantico e Mosca non debba risolversi nel sangue. Riformato per motivi di salute, secondo i media locali il suo gesto è dettato non solo dalla paura di essere inserito nelle liste di mobilitazione parziale dei riservisti russi, ma anche dal dolore provocato dall’invasione russa in Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022.

La doppia truffa di Putin e Zelensky

“Operazione militare speciale” o invasione che sia, quella iniziata nel 2022 è un’attività militare doppiamente truffaldina: spacciandola per una esercitazione militare nella fedele Bielorussia, Vladimir Putin manda in guerra militari di leva male armati e peggio addestrati, mentre l’informazione atlantica vende alla popolazione europea un conflitto tra oligarchie spacciando l’Ucraina di Volodymyr Zelensky come l’ultimo baluardo a difesa dei “valori occidentali”. Emblematica è la consegna a Kiev del Premio Sakharov – il più importante premio europeo per la tutela dei diritti umani – ad un governo che dal 2014 cancella dalla sua cultura l’eredità russa, volgarmente sovrapposta al “putinismo“.

Nello scontro tra le due oligarchie c’è anche un terzo giocatore, volutamente tenuto fuori dalle narrazioni mediatiche di entrambi i fronti: le migliaia di persone che rispondono “Nossignore! al loro governo, russo o ucraino che sia. Un rifiuto che arriva sia dai militari sia dalle persone comuni, da quei contadini, quegli agricoltori a cui fare la guerra non interessa, qualunque ne sia il motivo.

Ogni soldato sia un disertore

Sul fronte russo dovrebbero essere, ad oggi, ben oltre 100.000 i soldati che in modo concreto o metaforico hanno bruciato le proprie divise per non partecipare alla guerra in Ucraina, il doppio i cittadini maschi ucraini che hanno preso la medesima decisione, al novembre 2023, secondo i calcoli riportati dal Manifesto. Il condizionale, dato l’alto livello di propaganda filo-militarista di entrambi i fronti, è d’obbligo.

Dati più certi, forniti dalla campagna internazionale “Object War, riportano come ad ottobre 2022 l’Esercito di Kiev fosse già impegnato in 5.000 processi contro gli obiettori di coscienza al servizio militare, che vanno ad aggiungersi ai 3.361 aperti per diserzione, tra gennaio e novembre 2020, contro cittadini ucraini. A novembre 2023 la Bbc indica in 650.000 i cittadini maschi ucraini fuggiti dal Paese per non partecipare alla guerra.[L’articolo originale è in russo, io l’ho letto dalla traduzione di Yahoo “BBC: 650,000 conscription-aged men have left Ukraine for Europe“]

“Ogni recluta può essere un obiettore di coscienza. Ogni soldato un disertore”
(slogan della campagna #StandWithObjectors)

Object War” nasce a settembre del 2022 come campagna internazionale contro la guerra promossa in 20 Paesi da 60 organizzazioni antimilitariste, pacifiste e nonviolente – tra cui il Movimento nonviolento italiano, l’European Bureau for Conscientious Objection, il War Resisters International, Connection e.V e l’International Fellowship of Reconciliation – che, in una lettera-petizione rivolta ai Presidenti della Commissione Europea (Ursula von der Leyen), del Consiglio Europeo (Charles Michel) e del Parlamento europeo (Roberta Metsola) chiedono che l’Europa dia protezione e asilo a tutti i disertori e gli obiettori al servizio militare che, tanto in Ucraina quanto in Russia e in Bielorussia, subiscono processi, repressione e violenze di vario genere, compresa la rappresaglia contro l loro famiglie. Ad una Unione Europea sempre più urFortezza, organizzazioni promotrici e firmatari (tu puoi unirti da questo link) chiedono inoltre di:

  • esortare il governo ucraino a smettere di perseguitare gli obiettori di coscienza e a garantire loro il pieno diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare
  • aprire le frontiere a chi si oppone alla guerra nel proprio Paese mettendosi consapevolmente a rischio di subire processi o violenze da parte del proprio governo

Oggi, fine marzo 2024, con i capi di Stato e di governo europei che parlano apertamente di incrementare spesa militare e partecipazione civile al fronte, è chiaro come la petizione non abbia riscosso alcun interesse negli uffici dei palazzi del Potere e nelle cancellerie europee (e ancora meno in quelli degli Stati Uniti).

Il meccanico che disse no alla guerra

Quest’ultimo punto non riguarda solo il conflitto russo-ucraino ma, potenzialmente, potrebbe trasformare l’Unione Europea nella matria[1] globale della diserzione e dell’obiezione di coscienza al servizio militare. Un progetto ad oggi antitetico alla politica europea, che nei Palazzi di Bruxelles e nelle cancellerie delle singole capitali pare indirizzarsi verso l’incremento esponenziale della spesa militare e della partecipazione civile al fronte, elemento che rende necessario l’uso del condizionale. Fare della bandiera blu con stelle gialle una tutela non solo di facciata per chiunque voglia disertare la Guerra tout court permetterebbe di offrire protezione anche a chi, come André Shepherd, il “militare combattente” lo ha fatto, forse, solo nei videogiochi.

Shepherd nel 2004 arriva infatti in Iraq come semplice meccanico. Ha 27 anni e all’epoca vive in macchina. È facile per l’arruolatore convincerlo a partire parlandogli di prestigiosi “benefit” economici come una paga regolare, la possibilità di viaggiare e soprattutto l’assicurazione sanitaria gratuita, «che sarebbe andata avanti anche se avessi lasciato il servizio»[2]. Il suo lavoro a Tikrit, dove viene inviato, è mettere gli elicotteri da combattimento in condizione di funzionare. 4 anni dopo diserta.

Non è un pacifista o un nonviolento, né è contrario alla guerra per posizione ideologica, tanto da non aver mai chiesto al suo governo di esentarlo come obiettore di coscienza: a convincerlo a chiedere asilo politico alla Germania, nel 2008, è il modo in cui lo guardano gli iracheni, uno sguardo che non è esattamente di ringraziamento. Da quegli sguardi a mettere in discussione il vero ruolo dell’Esercito in territorio iracheno – ufficialmente a caccia di Osama bin Laden o, almeno, delle inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein – il passo è breve.

Per Shepherd – e non solo – l’intervento in Iraq è una violazione del diritto internazionale da parte degli Stati Uniti, per questo si appella alla Union Qualification Directive, con cui l’Unione Europea protegge chiunque rifiuti di partecipare ad una violazione del diritto internazionale e, per tale scelta, rischi nel suo Paese di subire un “provvedimento sproporzionato o discriminatorio”, come recita l’art.9 della Direttiva (paragrafo 2, lettere b e c).

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, interpellata dal Tribunale amministrativo di Monaco di Baviera, fa giurisprudenza certificando come anche chi si occupa di logistica o servizi non militari – il “personale non combattente” – deve avere il di coscienza perché l’attività svolta è comunque necessaria allo svolgimento della guerra stessa.

Profughi e disertori

Nell’ultimo decennio, il diritto internazionale ha sempre più legato la protezione degli obiettori di coscienza al servizio militare con quella delle persone rifugiate: proprio nel 2014 l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) pone la richiesta di asilo politico per “disertori” e “persone che evitano il servizio militare” sotto la protezione della Convenzione di Ginevra, una decisione che permette l’anno successivo al Consiglio dell’Onu per i diritti umani di richiamare gli Stati membri sulla garanzia di asilo politico per gli obiettori che, rifiutandosi di prestare servizio militare, potrebbero essere perseguitati nei loro Paesi.

Seppur osteggiata in ogni parte del mondo, l’obiezione di coscienza al servizio militare è un diritto acquisito a livello internazionale fin dagli anni ‘60, grazie a due Risoluzioni del Consiglio d’Europa[3] – numero 337 del 1967 e n.816/1977 – ed al “Patto internazionale sui diritti civili e politici” che le Nazioni Unite firmano nel 1966. Il Patto entra in realtà in vigore solo dieci anni dopo, pochi anni prima che una revisione completa della materia porti proprio l’Onu a sancire alcuni principi basilari che gli Stati membri devono seguire e che sono riassumibili soprattutto in tre macro-aree:

  • riconoscere a chiunque il diritto di rifiutare il servizio militare se questo è imposto per perseguire una politica di apartheid, ovvero per condurre a guerra di aggressione o per intraprendere illegali pratiche militari
  • riconoscere il diritto di rifiutare per motivi di coscienza il servizio militare e sostituirlo con un altro tipo di servizio nel campo sociale ed economico, comprendente un impegno di lavoro atto a favorire il progresso e lo sviluppo economico del proprio Paese
  • favorire l’asilo politico, o il diritto di transito verso un altro Stato, alle persone costrette a lasciare il proprio Paese di origine per ragioni di obiezione di coscienza

Oggi per il diritto internazionale l’obiezione è una applicazione pratica della libertà di coscienza, pensiero e – per chi crede – religione. È nel 2000, con la Carta di Nizza, che l’Unione Europea definisce come nessuna persona possa essere obbligata ad imbracciare le armi se il gesto è contrario ai suoi valori (articolo 10, comma 2) anche se il legislatore lascia ai singoli Paesi disciplinare la materia nel dettaglio: è il cavillo che permette tanto a Mosca quanto a Kiev, ma lo stesso vale tra gli altri anche per la Bielorussia o la Turchia, di non rispettare né tutelare il diritto a dire no alla guerra.

Dire ”Nossignore!” è un diritto...teorico

Tornando all’attualità del conflitto russo-ucraino, tanto Kiev quanto Mosca riconoscono l’obiezione di coscienza al servizio militare come un diritto costituzionalmente tutelato, ma entrambe lavorano alacremente per renderlo illegale: la Russia usando artifici linguistici per definire quella con Kiev non una “guerra” ma una “operazione militare speciale” e punendo chi obietta con un servizio alternativo di 21 mesi, quasi il doppio del servizio di leva; Kiev arresta obiettori e disertori – con pene che vanno dai 5 ai 10 anni di carcere per chi obietta e fino a 3 per chi diserta – , grazie ad una legge del 2015, permette ai comandanti di sparare a chi diserta o disobbedisce agli ordini militari. Nessuno dei due Paesi, comunque, rende tale diritto disponibile per i militari in servizio e i riservisti.

Con l’invasione del territorio ucraino, il regime di Putin emana una nuova legge con la quale ogni cittadino che dovesse schierarsi contro la guerra in Ucraina rischia fino a 15 anni di carcere. La stessa pena viene comminata a chi, semplicemente, chiama la guerra con il suo vero nome e non seguendo il dizionario fornito dal regime, a chi discredita le forze armate russe o chiede sanzioni contro il regime. Nel giro di un paio di mesi la nuova legge porta ad aprire 1500 processi amministrativi e 100 penali, con circa 40 media indipendenti tra giornali, blog e siti di informazione bloccati, social media compresi.

Molotov antimilitariste

L’inasprimento della repressione militarista in Russia, insieme alla coscrizione obbligatoria, sta dando involontariamente vita ad una nuova pratica di antimilitarismo[4] diretta: quella di semplici cittadini che lanciano bombe molotov contro gli uffici di arruolamento dell’esercito. Tranne che in un caso, peraltro fortuito, le azioni vengono compiute quando gli edifici sono vuoti: l’obiettivo infatti non è arrecare danno alle persone ma distruggere le liste di coscrizione militare, così che nessuno possa essere chiamato al servizio militare.

Secondo Olya Romashova, dall’inizio del conflitto a settembre 2022 sono oltre 50 i centri di arruolamento militare colpiti da incendio doloso, in 38 regioni russe. Chi viene arrestato viene accusato di una lunga lista di reati che vanno dal vandalismo all’incendio doloso fino alla – scontata – accusa di terrorismo. [“I won’t go and kill my brothers!”: Russians set fire to draft centres].

Divieto di pace

Nonostante goda di un Occidente amico dal punto di vista politico, economico e mediatico – qualcosa sembra però iniziare a rompersi in questa narrazione – anche Zelensky è di fatto a capo di un consolidato regime non democratico che reprime il dissenso politico e sociale con la violenza delle armi e dei tribunali, che si abbattono non solo su voci e atti contrari alla guerra ma anche sull’opposizione al governo in carica, con 12 partiti di opposizione resi illegali, 3 delle principali emittenti televisive chiuse ed altre costrette a fare voto d’obbedienza per poter continuare a trasmettere. A ciò si aggiunge una nuova legge del giugno 2022 che pone il divieto totale di importare e distribuire nel Paese libri editi in Russia e Bielorussia, così come è vietata la diffusione di musica prodotta da cittadini russi.

È inoltre ironico – o inquietante, a seconda dei punti di vista – che a volere la cancellazione della cultura russa sia quel Presidente Zelensky che ancora nel 2019 dichiara di non parlare «fluentemente» ucraino, preferendo esprimersi proprio in quella lingua russa che sta tentando in tutti i modi di cancellare anche dall’insegnamento scolastico.[Zelensky wants to know and speak Ukrainian better].

In questo clima sembra accettabile permettere al governo di Kiev di vietare per legge la pace con la Russia, almeno finché non ci sarà un cambio di regime a Mosca: di fatto lo stesso concetto che il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden pone nel suo “discorso sulla libertà” proferito a Varsavia il 26 marzo 2022. Con un qualunque altro governatore non democratico, in qualunque altra parte del mondo, politica e giornali occidentali denuncerebbero svolte autoritarie e diminuzione della democrazia. Noi atlantici e liberi democratici, siamo diventati per legge devoti a Madre Guerra.

Ma personaggi come Volodymyr Zelensky, il dittatore egiziano Abdel Fattah al-Sisi o Receep Tayyp Erdogan, padrone incontrastato della Turchia da 10 anni, godono della “dottrina Rossevelt” («Sarà pure un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana»)[5] e sono, dunque, intoccabili perché utili alla causa atlantica. Almeno per adesso.

Uno Zelensky a tempo?

La storia dei rapporti geopolitici degli Stati Uniti con i propri protetti in giro per il mondo è in tal senso un insegnamento da non dimenticare: Volodymyr Zelensky va protetto, finanziato, e armato finché rimane un burattino necessario a portare avanti l’agenda politico-economica di Washington nell’area, come già successo a latitudini ed in tempi diversi. Se dovesse iniziare ad agire per proprio conto – come sembra sia successo con il bombardamento del ponte Kerch , rivendicato dai servizi segreti di Kiev - dovrà essere richiamato all’ordine. O sostituito con un altro Presidente “amico”.


Questo articolo è il primo - dopo la copertina di “Madre Guerra“ - di "Achtung Disertoren!" una lunga serie su antimilitarismo, guerra e diserzione sullo sfondo della guerra in Ucraina.


Note:

  1. Derivante dagli studi femministi, il concetto di “matria” viene introdotto in ovvia contrapposizione a concetti come “patria” – e dunque “patriarcato”, con tutte le sue sfaccettature – “nazione” e aiuta a decostruire la società machista attraverso lo sguardo alla terra madre e quindi rilancia un tipo di appartenenza identitaria fondata sulla partecipazione volontaria e frutto di una scelta autodeterminante ad una comunità e non ad un “giuramento di fedeltà” al potere costituito. Parlare di “matria” indica guardare ad una società dialogante, empatica e non violenta rispetto ad una “patria” fatta di gerarchie, conflitto e violenza. Soprattutto, la “matria” indica un tipo di società in cui il ruolo di creare l’identità della comunità è affidato proprio alle donne
  2. La testimonianza di Shepherd è pubblicata, insieme a quella di moltx altrx militari statunitensi, nel libro “About Face: Military Resisters Turn Against War”, curato da Buff Whitman-bradleey, Sarah Lazare e Cyhntiha Whitman-bradley e pubblicato da PM Press nel 2017. Un estratto del libro, in italiano, è pubblicato sul numero 405 di “A Rivista Anarchica” del marzo 2016
  3. Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione internazionale, fondata con il Trattato di Londra del 1949, con il compito di promuovere democrazia, rispetto dei diritti umani e cercare soluzioni ai problemi sociali del Vecchio continente. Nonostante il nome possa confondere il Consiglio d’Europa non è un organo dell’Unione Europea
  4. Usati spesso come sinonimi, antimilitarismo e pacifismo non indicano la stessa cosa: un pacifista è per definizione antimilitarista, perché crede nella risoluzione pacifica – cioè non violenta – dei conflitti di qualunque ordine e grado, mentre un antimilitarista può non essere pacifista e concepire il ricorso alla violenza, in modo più o meno ampio, per la risoluzione dei conflitti
  5. La frase, tra le più note pronunciate dall’ex Presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt (1933-1945) è riferita ad Anastasio Somoza, dittatore del Nicaragua (1936-1979)

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