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(Vasco Brondi - "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero")

sabato 28 settembre 2024

Vi serve ancora la guerra in Ucraina? [Achtung Disertoren! #9]


Le armi ringhiano a difesa del vecchio mondo, che lentamente crolla svelando il volto intersezionale della Guerra. Mentre i nemici tornano amici, perché pretendiamo Pace da chi fa soldi con la Guerra?


Alexei Gorinov
Alexei Gorinov, ex sindaco russo condannato per essersi opposto alla guerra in Ucraina. In una delle udienze del processo espone un cartello che recita: "Avete ancora bisogno di questa guerra?" (foto: Kirill Kudryavtsev per Afp)

Lo scoppio della guerra “di trincea” come risposta all'invasione russa dell'Ucraina orientale del 24 febbraio 2022, l'area del Paese più ricca di risorse naturali – ad iniziare dalle terre rare - pone la popolazione occupata sotto fuoco incrociato: da un lato l'aggressione esterna, cui si dedica con attenzione (e una buona dose di propaganda) l'intero sistema di latifondi mediatici atlantici; dall'altro lato l'aggressione interna, portata alla popolazione da una classe dirigente che i dati internazionali indicano come non democratica, corrotta e legata ad interessi esterni e lontani dalla volontà popolare. Una classe dirigente che tra cancellazione della cultura russa, espulsione dei partiti di opposizione e censura della libertà di espressione ha molto in comune con quel regime putiniano contro cui muove guerra per nome e conto degli Stati Uniti.

È per denunciare questa dinamica che, in parallelo alle prime fasi dell'aggressione, si sviluppa una terza posizione politica racchiusa nello slogan “né con Putin né con la Nato” e che viene fin da subito tacciata di pacifi(nti)smo dal complesso militar-industriale e dalle sue ancelle nei partiti politici e negli organi di informazione. Una posizione, fatta di antimilitarismo, femminismo, ambientalismo che, oltre alla conclusione non-belligerante della guerra, prova a proporre un'idea di Ucraina post-bellica che non veda il Paese guidato dalla stessa classe dirigente di oggi ma riciclata dai nuovi Padroni esterni di Kiev.

La Guerra è un potere intersezionale (vol.1)

Quei Padroni, cioè, che a 10 anni dal vero inizio della guerra mostrano volto e obiettivi senza possibilità alcuna di essere smentiti: i Putin e gli Zelensky di oggi, come ieri i Saddam Hussein, gli Slobodan Milošević e gli altri che verranno in futuro sono maschere momentanee necessarie a nascondere gli interessi economici di alcuni – governi, multinazionali, settori del capitalismo finanziario internazionale – in quel bluff umanitarista che oggi, lungo limmaginario confine che lega Kiev a Gaza, non regge più: il processo di militarizzazione forzata dellEuropa, che la Commissione Europea sta portando avanti anche grazie alla guerra in Ucraina, mostra come il futuro delle popolazioni coinvolte dal conflitto e dai suoi effetti indiretti non rientri negli interessi primari di quella parte del Mondo che si arroga il potere di decidere per tutti.

Dietro al Gioco grande del Potere[1] che la Guerra è si articola un ingranaggio profondamente intersezionale, nel quale ad una spesa militare 2023 di 2.443 miliardi di dollari (+6,8% rispetto al 2022) e alla necessità per il complesso militar-industriale di non registrare perdite multimiliardarie, si legano crisi alimentari e ambientali provocate anche dal suo effetto domino[2], dall'impiego di armi tossiche – come la "Sindrome del Golfo" (o "dei Balcani") dovuta all'uso dell'uranio impoverito – ai flussi migratori da aree di conflitto o da Paesi depredati delle proprie risorse o avvelenati da alcune tra le più glorificate multinazionali, come nel caso dello scontro tra la popolazione Waorani, il governo dell'Ecuador e multinazionali del petrolio come Texaco.

È ancora democrazia, se si comporta come una dittatura?

Promuovere la partecipazione atlantica nel conflitto tra Kiev e Mosca, si dice nei primi mesi post-invasione, significa correre in difesa di quei "valori occidentali" che l'esercito russo, attraversando il confine con l'Ucraina, minaccia in modo più che evidente. O almeno così dichiarano ai latifondi mediatici unificati i leaderini eurostatunitensi, adducendo un nesso di causalità tanto fantasioso quanto impossibile da dimostrare.

Una excusatio che perde tutto il suo potenziale attrattivo già dopo poche settimane per un dato oggettivo: a ben guardare, i valori della "buona" società atlantica diventano sempre più sovrapponibili ai valori dei regimi non-democratici - di cui il regime putiniano è pilastro - amici o nemici della urFortezza che siano (ne abbiamo parlato ampiamente nell'approfondimento sull'"Architettura dell’Oppressione", ndr). Se, come scrive in Qui siamo in guerra[3] il movimento russo Resistenza Femminista contro la Guerra, la Russia di Vladimir Putin è caratterizzata da

disuguaglianza di genere, lo sfruttamento delle donne e la repressione statale contro coloro il cui stile di vita, autoidentificazione e azioni non sono conformi alle ristrette norme del patriarcato

Per approfondire:

Quale differenza c'è, allora, tra la Russia che invade i Paesi vicini e gli Stati Uniti che influenzano le elezioni in altri Paesi? E cosa differenzia i regimi che bloccano i diritti fondamentali da quei governi, tutti conclamati esportatori di democrazia, che tagliano la spesa per istruzione e sanità pubblica per acquistare armi, spesso per rivenderle a dittatori e governi in guerra? Quale differenza esiste tra un regime che uccide giornalisti scomodi come Anna Politkovskaya e Antonio Russo con quel governo democratico che incarcera Julian Assange – non potendo ucciderlo, nonostante i piani della Cia – e censura tutte le voci che provano a raccontare il volto non-democratico della Casa Bianca, come Edward Snowden, Chelsea Manning o Daniel Ellsberg?

E ancora, cosa differenzia la Russia di Putin da Israele, dove il capo del Mossad minaccia la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale, Fatou Bensouda, per costringerla a non aprire un'indagine sui crimini di guerra israeliani nei Territori Palestinesi Occupati? Più in piccolo: possiamo davvero trovare differenze tra un regime che nega i diritti alle persone della comunità lgbtqi+ e l'Italia che nega il diritto – costituzionalmente tutelato - di iscrivere all'anagrafe i figli di famiglie omogenitoriali?

L’invasore vale più del dittatore di casa?

11 marzo 2023, London School of Economics: durante la conferenza Solidarity with Ukraine. Building a new internationalism John McDonnell, Clive Lewis e Nadia Whittome – parlamentari del Partito laburista inglese – denunciano come l'"emergenza" della guerra in Ucraina stia aiutando la classe dirigente ucraina a ridurre ancor di più gli spazi di democrazia interna, attuando non solo politiche da regime tout court, come quelli appena visti, ma anche pratiche neoliberiste come la privatizzazione dell'economia o l'introduzione nell'ordinamento giuridico di leggi anti sindacali con cui erodere diritti che, con la scusa della Guerra, non sono più una priorità nell'agenda governativa.["Aid for Ukraine must not have neoliberal strings attached"].

Da questo punto di vista, il blocco di Potere che oggi guida l'Ucraina ha bisogno di guerra e conflitto, una necessità che si traduce nella costante richiesta di armi da parte di Zelensky a Washington e Bruxelles, ben felici di accontentare Kiev e assicurarsi i voti del comparto militar-industriale, pilastro fondativo della urFortezza. In questo, Vladimir Putin non potrebbe essere alleato-nemico migliore: guardando ai principali indicatori di democrazia atlantici (Freedom House, Economist, Reporters Senza Frontiere), alla difesa dall'invasore esterno la popolazione ucraina dovrebbe aggiungere – o forse anteporre - spazi di conflittualità sociale interni e orizzontali contro quel regime interno che nega diritti, libertà e Democrazia ai suoi stessi cittadini.

Nazioni (poco) Unite

Schierarsi "né con Putin né con la Nato" si traduce in un progetto politico di cui il Potere atlantico si rende conto davvero solo il 12 ottobre 2022, quando a New York l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite viene convocata d'urgenza per decidere sulla "integrità territoriale dell’Ucraina e difendere i principi della Carta dell'Onu": la Risoluzione ES-11/4 – proposta da tutti i Paesi dell'Unione Europea – passa ad ampia maggioranza e, tra le righe del burocratese, mira a condannare formalmente la Russia per l'"annessione illegale" dei territori separatisti di Donetsk e Lugansk. (qui la bozza, in inglese)

È in questa occasione che nasce il "fronte dei Paesi ribelli" che, come i Non Allineati durante la Guerra Fredda[4] non si conformano al pensiero egemone: dei 193 Paesi membri 5 votano contro la Risoluzione – oltre alla Russia anche Bielorussia, Corea del Nord, Nicaragua e Siria – 35 si astengono[5], altri 10 non si presentano alla votazione[6]. Alla base di tali decisioni ci sono scelte che vanno ricercate in 3 "macro-aree":

  • esprimere "Memoria militante" per aver subito gli effetti dell'egemonia atlantica e del doppio standard di Europa e Stati Uniti nella difesa dei diritti umani "universali"
  • i rapporti che questi Paesi intrattengono con la Russia di oggi e di ieri, quando sotto l'insegna dell'Unione Sovietica Mosca ricopre un ruolo importante a sostegno dei movimenti di liberazione e decolonizzazione
  • l'"effetto domino" globale sulla stabilità sociale, economica e politica di un conflitto che, fuori dal cosiddetto Primo Mondo, viene fortemente imputato alla politica di allargamento della Nato nell'Europa dell'est

Filorussi no, contro il "doppiopesismo" atlantico sì

Dietro le sanzioni a Mosca, dichiara Nicolas de Rivière, rappresentante permanente della Francia all'Onu, si nasconde – neppure in modo così velato – la volontà atlantica di «preservare l'ordine internazionale e i suoi valori». Tradotto: mantenere in piedi quel sistema internazionale in cui Washington e Bruxelles comandano e gli altri Paesi obbediscono. Almeno finché qualcuno di questi Paesi – o una loro coalizione – non decide di provare a cambiare le regole del gioco: organizzazioni come i Brics, l'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai o l'Alleanza degli Stati del Sahel, di cui parleremo in un approfondimento specifico, nascono esattamente con questo scopo. Scrive Pierre Haski su France Inter (qui ripreso nella traduzione di Andrea Sparacino per Internazionale) a commento di un sondaggio Open Society:

più che un'adesione alle tesi russe emerge un sentimento di sfida nei confronti di un occidente che per troppo tempo ha mantenuto un atteggiamento egemonico. Lo dimostra il fatto che alla domanda "è giusto che la Russia si ritiri dal territorio ucraino per garantire la pace?" la maggioranza degli intervistati sparsi per il mondo ha risposto di sì

Per approfondire:

Non è da considerare "immorale", soprattutto se si abbandona il punto di vista etnocentrico del mondo atlantico che Paesi come Bolivia, Nicaragua o Sud Africa, in sede Onu, non si schierino in sostegno degli interessi atlantici contro la Russia: basta infatti sfogliare un libro di Storia per capire come molti dei Paesi oggi "dissidenti" sono o sono stati teatro di alcune tra le peggiori violazioni dei diritti umani da parte degli Stati Uniti, dell'Europa, della Nato e, in più di un'occasione, delle stesse Nazioni Unite senza che nessuno abbia realmente agito per punire Washington, Bruxelles o le istituzioni sovranazionali – anche nella più blanda forma possibile - come si è invece provato a fare con la Russia dal 24 febbraio 2022. Anche per questo, ricorda Alfred de Zayas fuori dall'area eurostatunitense «è del tutto irrilevante» che la Crimea sia in Ucraina o in Russia.

È l’applicazione massima di quel parametro "doppiopesista" – "doppio standard occidentale", in gergo più tecnico – per il quale, a parità di crimine, Vladimir Putin deve essere condannato mentre Benjamin Netanyahu o Recep Tayyp Erdogan sono invece liberi di perseguire le loro politiche di genocidio, repressione violazione dei più basilari diritti di palestinesi e kurdi.

Facciamo finta di processare il "nemico" Putin?

Scavando appena sotto il bluff umanitarista, è chiaro che il "personaggio" Vladimir Putin serva al progetto atlantico sull'Ucraina – e sulla militarizzazione europea – più di quanto non ne sia nemico: è lo stesso trucco per cui le politiche terroristiche di Israele nei Territori Palestinesi Occupati necessitano dello "spauracchio" Hamas, che infatti i governi israeliani aiutano da anni. È la ricetta per scrivere qualunque racconto applicata, però, alla realtà: un "buono" si definisce solo come contrasto ad un "cattivo" e viceversa, l'uno non può esistere senza l'altro, come sa bene chiunque si occupi di raccontare storie.[For years, Netanyahu propped up Hamas. Now it’s blown up in our faces].

È un racconto da "realpolitik" che, ad un certo punto, Putin tornerà ad essere un "non-nemico" del Potere atlantico, soprattutto nella futura guerra (militare?) contro la Cina. A meno di rovesciamenti del regime russo, con la necessaria ridefinizione degli equilibri geopolitici del Paese: una situazione ad oggi imprevedibile ma già raccomandata, sottovoce, in molti uffici diplomatici dei Paesi esportatori di democrazia.

L'altra strada possibile è, infatti, impraticabile: un processo per crimini contro l'umanità promosso dalla Nato rischierebbe di confondere accusa e difesa: uno studio realizzato nel 2023 dal Watson Institute for International and Public Affair stima in 4,5 milioni di persone le vittime della Guerra al Terrore promossa dagli Stati Uniti in risposta agli attentati dell'11 settembre 2001. Di questi, lo studio indica in 3,6-3,7 milioni le persone morte in via "indiretta" in Paesi come Afghanistan, Iran, Pakistan, Siria o Yemen per la diffusione di malattie o traumi, per l'insicurezza alimentare, la distruzione di servizi pubblici e infrastrutture sanitarie o il collasso economico dei Paesi colpiti dalle politiche antiterrorismo di Washington.[How Death Outlives War: The Reverberating Impact of the post-9/11 Wars on Human Health].

Da processato ad alleato: una via d'uscita per salvare...Putin?

Più plausibile appare intraprendere un percorso che, non potendo giungere ad una Pace definitiva tra Ucraina e Russia, porti i due Paesi ad un armistizio, magari sul modello che regola da 70 anni i rapporti tra le due Coree, con una contemporanea amnistia per i crimini commessi da entrambi i blocchi di potere: ciò permetterebbe di mantenere "caldo" un confine che diventerebbe importante piazza d'affari – e test? – per le armi atlantiche e, cosa non meno importante, toglierebbe imbarazzo a tutti quei leaderini d'Europa che fino al 23 febbraio 2022 hanno baciato il santino del Presidente russo, e soprattutto i suoi rubli, con pubblica convinzione. Quegli stessi presidenti e capi di governo che oggi, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, si presentano come i più acerrimi nemici di qualunque cosa abbia un minimo odor di Russia. Insalata compresa.

Il ribaltamento semantico con fuga repentina dall'Afghanistan, dove i taleban sono passati nel giro di una notte da nemici a "Potere ignorato" da parte di Washington – o "alleato" - è una possibile prova generale per la sceneggiatura da tenere con Vladimir Putin e il suo sistema di Potere?

Per approfondire:

Nell'attesa che il marketing bellico riscriva il "personaggio" Putin in funzione filoatlantica e, soprattutto, anticinese, sarà difficile sostenere un dato incontrovertibile ma censurato dal 24 febbraio 2022: la Russia non è Putin e, per logica conseguenza, non tutta la popolazione russa è favorevole al Presidente e alle sue politiche, interne ed internazionali. Valga per tutti la storia di Ivan "Walkie" Petrunin, rapper russo che per non partecipare all'invasione decide di disertare suicidandosi.

Vi serve ancora la guerra in Ucraina?

Avvocato e deputato per il distretto moscovita di Krasnosel'skij, dal 2022 Alexei Gorinov è anche il primo cittadino russo ad essere condannato per violazione della legge contro la diffusione di notizie "false" – cioè non filorusse – sulla guerra in Ucraina: gli vengono comminati 7 anni di carcere, poi "ridotti" a 6 anni e 11 mesi, per essersi opposto ad un concorso cittadino di disegno per bambini, ricordando che altri bambini in quello stesso momento stanno morendo sotto le bombe russe. Durante il processo, Gorinov si esprime più volte contro la «vile» guerra, usando i vetri della gabbia in cui viene rinchiuso durante le udienze del processo come megafono, come quando – sfruttando la presenza dei media – espone un cartello su cui riporta una domanda che andrebbe rivolta a tutti i governi coinvolti, in modo più o meno indiretto, nel conflitto:

Avete ancora bisogno di questa guerra?

Il frastuono della minoranza bellica

«», rispondono con convinzione i produttori, i venditori e i trafficanti d'armi che, come per l'uranio impoverito inglese, nella guerra in Ucraina trovano una perfetta discarica – o un perfetto mercato, a seconda dei punti di vista – per le armi invendute o un punto per triangolarne l'invio a Paesi terzi, a partire dalle Afriche. La stessa risposta affermativa arriva, però, anche da una classe politica e informativa trasformatasi, in maniera ormai inossidabile, ancella del complesso militar-industriale. «», infine, rispondono tutte quelle grandi, medie e piccole aziende che verranno coinvolte nel grande business della ricostruzione post-bellica dell'Ucraina.

Ma a guardare bene, ad avere ancora bisogno di questa guerra – e in generale della Guerra tout court, quella con la maiuscola – è una minoranza di persone. Una minoranza gracchiante, presenzialista nell'agenda dei latifondi mediatici e, soprattutto, con una immensa capacità di influenzare i Parlamenti.

Scatenare una "tempesta democratica" contro la Guerra?

Una minoranza rumorosa, chiamata ad amministrare il principio di autodeterminazione del Potere declinato nel capitalismo, e nelle sue innumerevoli versioni, nello «sfruttamento dell'uomo sull'uomo», nella diffusione di regimi repressivi, non-democratici e autoritari.

Sotto questo presupposto, la Guerra – che già si sta spostando ancora più a est, verso l'area del Pacifico - sopravvivrà a tutti i suoi attuali rappresentanti, compresa quell'Unione Europea dove, con la riconferma del "governo" von der Leyen, si rafforzerà il connubio tra la militarizzazione politico-economica e la probabile "fascistizzazione" post-elezioni del giugno 2024 sta diventando un vero e proprio pericolo pere le popolazioni, fuori e dentro i confini della urFortezza. Con uno scenario simile diventa fondamentale e non più procrastinabile una domanda che solo le voci pacifiste, antimilitariste e nonviolente, poste alla periferia del dibattito internazionale, provano ancora a fare: perché non iniziamo a fare guerra alla Guerra in sé e non solo a chi la guerra la fa o la produce?

Fare la guerra alla Guerra significa dar vita ad un "controconflitto" che per antitesi non potrà che essere antimilitarista e nonviolento, capace di scatenare una tempesta democratica e dal basso – parafrasando il giornalista Raúl Zibechi – che, secondo quanto dichiarano a Nerofumo, curatore di Qui siamo in guerra[7], l'Organizzazione Boak, gruppo anarcocomunista clandestino attivo in Russia e Bielorussia:

  • rafforzare il controllo democratico da parte delle popolazioni e delle comunità
  • sviluppare «legami orizzontali globali», partendo dai casi di collaborazione transfrontaliera elencati da Felip Daza Sierra nel suo rapporto, che non si limitino al campo dell'attivismo politico, «ma operino anche nella sfera politica»

Quest'ultimo punto rafforzerebbe una convinzione ormai ben salda non solo nel pensiero antimilitarista, tra gli obiettori e i disertori, ma anche in vari centri di ricerca come il Rand Corporation - e in militari come Mark Milley, capo di Stato maggiore e militare più alto in grado nella gerarchia statunitense: la guerra in Ucraina non può essere vinta né da Mosca né da Kiev-Washington, almeno non rimanendo ancorati alla soluzione militare.

Per questo, come si legge nell'intervento del Coordinamento RiseUp4Rojava in Qui siamo in guerra[8], fare la guerra alla Guerra significa mettere in discussione anche l'idea dello Stato-nazione, rompendo la «sottomissione collaborativa» del popolo con il Potere, come già denuncia l'antropologo anarchico David Graeber in Critica della democrazia occidentale. Scrive il Coordinamento:

Lo Stato-nazione ha una sua logica che non è la stessa dei popoli[...]È nella composizione degli Stati-nazione che si costituisce la base organizzativa della modernità capitalista[…]La solidarietà tra i popoli che compongono la società democratica è uno dei pilastri principali che hanno costruito la rivoluzione del Rojava, così come la sua autodifesa[…]
Questa posizione, quella di non stare con lo Stato-nazione ma con ii popoli della società democratica indipendentemente dai confini – siano essi in Ucraina, Russia, Kurdistan o Chiapas [- deve avere la precedenza nella nostra analisi di questo e altri conflitti. Ci] mostra un percorso verso un futuro senza massacri in nome dei Paesi capitalisti, ma in nome della Pace, della libertà e della solidarietà. Collega le nostre lotte in una lotta comune contro la modernità capitalista e i giochi di Potere delle forze imperialiste

Perché pretendiamo la pace da chi guadagna con la Guerra?

Con questa chiave di lettura, che il leader curdo Abdullah Öcalan chiama "civilizzazione democratica", non si può che concludere come insieme a Vladimir Putin e a Volodymyr Zelensky, a Bejamin Netanyahu e ai leaderini dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, sul banco degli imputati dovrebbe finirci anche la cosiddetta "opinione pubblica" internazionale, rea di essersi schierata in favore della guerra da comodi divani ben distanti dal fronte e, di conseguenza, tifando contro il suo stesso interesse. Una domanda, a questo punto, va fatta deflagrare: perché siamo così stupidi, come "coscienza collettiva", da pretendere che a raggiungere la Pace sia chi, letteralmente, siede sul Potere delle armi?

Perché non affidare le trattative per la risoluzione del conflitto alle Madres russe e ucraine che, come le più note argentine, pretendono il ritorno in vita dei loro figli, mariti, padri e fratelli mandati in trincea per difendere gli interessi di chi - come la classe politica – al fronte ci va solo per darsi un tono dinanzi alle telecamere e rassicurare il Potere che in quella sede rappresenta? O ancora, perché non far sedere al tavolo della Pace i disertori, chi obietta o brucia gli archivi degli uffici reclutamento? Perché non affidare il mantenimento della Pace, una Pace vera e non "giusta" come nella volontà atlantica, a quelle famiglie ucraine che, incuranti del reciproco odio di Stato, danno ospitalità ai soldati "nemici"? In sintesi: perché non affidiamo la pace a chi, semplicemente, ha deciso di non farla, la Guerra?


Questo articolo fa parte della serie "Achtung Disertoren!", l'approfondimento di Inchiostro Politico su antimilitarismo, guerra e diserzione sullo sfondo della guerra in Ucraina.


Note:

  1. Sandra Bonsanti, "Il gioco grande del Potere", Milano, Chiarelettere, 2013. La definizione da cui è tratto il titolo del libro è mutuata da una frase del giudice Giovanni Falcone
  2. Mariangela Pira, "Effetto domino. Come il mondo globale influenza le nostre tasche", Milano, Chiarelettere, 2023
  3. Nerofumo (a cura di), "Qui siamo in guerra. Anarchia, antifascismo e femminismo in Ucraina, Russa e Bielorussia. Scritti e testimonianze", Urbino, Edizioni Malamente, 2022. l’intervento completo del movimento russo di Resistenza Femminista alla Guerra è pubblicato alle pagine 15-18
  4. Ideato nel 1961 per volontà della "Iniziativa dei 5", composta dai presidenti di India (Jawaharlal Nehru), Jugoslavia (Josip Broz Tito), Egitto (Gamal Abd elNasser), Indonesia (Sukarno) e Ghana (Kwam N'krumah), che in tempi di Guerra Fredda vogliono staccarsi sia dal blocco di influenza statunitense che da quello sovietico per modificare in senso multipolare gli equilibri internazionali, ponendosi ad esempio per l'autodeterminazione dei popoli. Oggi il NAM, secondo l'acronimo inglese, è composto da 117 Paesi – tutti entrati tra il 1961 ed il 2011, 14 Paesi osservatori e 11 organizzazioni osservatrici
  5. Per l'approvazione della Risoluzione sono necessari i voti dei 2/3 dei Paesi presenti, le astensioni non contano, ma hanno un forte peso politico, soprattutto in questa votazione. Ad astenersi sono: Algeria, Armenia, Bolivia, Burundi, Repubblica Centrafricana, Cina, Congo, Cuba, Eritrea, Eswatini (fino al 2018 Swatziland), Etiopia, Guinea, Honduras, India, Kazakistan, Kirghizistan, Laos, Lesotho, Mali, Mongolia, Mozambico, Namibia, Pakistan, Sri Lanka, Sud Africa, Sud Sudan, Sudan, Tagikistan, Thailandia, Tanzania, Togo, Uganda, Uzbekistan, Vietnam e Zimbabwe
  6. Si tratta di: Azerbaijan, Burkina Faso, Camerun, El Salvador, Gibuti, Guinea Equatoriale, Iran, São Tomé e Principe, Turkmenistan e Venezuela
  7. Nerofumo, op.cit., pp.79-92
  8. Nerofumo, op.cit., pp.23-25

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