Cercavamo i proiettili nei dizionari/e la polizia ci canta la ninnananna alla scuola Diaz/Sacco e Vanzetti si rigirano sulle sedie elettriche/Nei tuoi occhi annegheremo, e la Digos ci farà un servizio fotografico/Ti lascerai dietro catastrofi. Ma ci sarà sopra il copyright

(Vasco Brondi - "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero")

giovedì 17 ottobre 2024

#Madres/1 – Del camminare fare disarmo [Achtung Disertoren! #13]


Zelensky vuole la Pace senza Putin, ma la Guerra si sconfigge solo con il dialogo. Gli esempi Colombia, Yemen e "Ceasefire". La Pace ha una sua meccanica "indigena" che il Potere non può comprendere.


La meccanica della Pace di Elena Pasquini. Copertina libro

La militarizzazione dell'informazione, operazione scientemente voluta dal Potere economico, politico e militare nella più ampia «colonizzazione della cultura» - riprendendo da Francesca Albanese[1] – ha un obiettivo specifico nella guerra in Ucraina tanto quanto nella più ampia gestone dell'"Architettura dell'oppressione": la «colonizzazione della mente per conformarla ai parametri cognitivi ed estetici della merce, del capitale».

Bifo: Il processo di colonizzazione della mente coinvolte il principio stesso della democrazia. La libertà di scelta e il pensiero critico, vengono distrutti, negati perché eliminati alla radice[...]In Italia la gente vota Berlusconi perché possiede una tale quantità di strumenti di comunicazione che finisce per essere la fonte dei flussi comunicativi che producono la mente collettiva. In America la gente vota Bush perché quel tipo di potere è anche il padrone della mente collettiva. Che tipo di democrazia è questa?

Kalle Lasn:[…]Alcuni studi mostrano che tremila messaggi pubblicitari entrano nelle case americane ogni giorno. Riesci a immaginarlo? Ogni giorno. Pensa alla televisione, alla radio, a Internet, ai depliant pubblicitari, ai messaggi nel telefono, alla pubblicità sugli edifici e sulle magliette. E tutti dicono la stessa cosa, vai fuori e compra qualcosa. È una specie di lavaggio del cervello, e io penso che quando un bambino viene cresciuto in una situazione come questa ogni aspetto della sua personalità è trasformata. Gli si dice come deve sentire il suo corpo, cosa è cool, quale musica ascoltare, che automobili amare. Tutto questo ha un effetto profondo sul suo comportamento[…]l'ambiente mediatico ha un effetto negativo sulla mente sociale, che ci rende malati. Credo che la consapevolezza di questo può essere l'inizio di un nuovo movimento di ambientalismo mentale[2].

Decolonizzare la mente militarizzata

Censurare la iniziale risposta non militare all'invasione – l'insieme di «azioni imbarazzanti» contro il Potere che Felip Daza Sierra riporta nello studio Ukrainian Nonviolent Civil Resistance in the Face of War – insieme alla militarizzazione filo-israeliana dei latifondi mediatici atlantici – ha lo scopo di creare massa a-critica nell'opinione pubblica internazionale, in modo che i leaderini con l'elmetto tatuato su cuore e portafogli possano millantare la volontà popolare come spinta propulsiva all'operazione militar-industriale in Ucraina e in Medio Oriente.

Più in generale la «colonizzazione» della cultura e delle menti, che passa anche dalla militarizzazione dell'informazione cosiddetta "mainstream" aiuta il Potere locale – qualsiasi potere locale, dall'Ucraina all'Italia – a prosciugare gli spazi per le lotte sociali interne, unico strumento di democrazia che manifesta davvero la volontà dei popoli. Discorso che, inserito nella guerra in Ucraina, vale sia per Kiev che per Mosca, i cui territori di confine oggi scenario di guerra diventano anche laboratori di repressione oltre che messaggio d'avvertimento, abbastanza nitido, a chiunque proverà in futuro a rispondere "Nossignore!" al progetto di cosmesi democratica portato avanti dalle capitali atlantiche.

Vanno letti in senso "anticolonialista", all'interno di questo processo conflittuale, le azioni antimilitariste – più o meno pacifiste – riportate da Daza Sierra così come le azioni e i progetti che i movimenti anarchici, pacifisti, femministi e antifascisti promuovono tanto in Ucraina e Russia quanto nel resto del mondo: uniti da un'idea comune, questi rappresentano un «messaggio di liberazione sociale», come lo definisce in Qui siamo in guerra il Comitato di resistenza di Kiev[3], per l'Ucraina (e la Russia?) post-bellica tanto per un mondo che, messo in disparte il capitolo est-europeo, sembra ormai impegnato a far deflagrare un nuovo-vecchio conflitto regionale in Medio Oriente. Una «liberazione» che della Guerra dovrà affrontare prima il suo progetto culturale, poi quello economico e solo alla fine gli aspetti prettamente militari. Scrive Elena L. Pasquini ne La meccanica della Pace[4]

La pace non è un cessate il fuoco e neppure un accordo. E non è data per sempre. Una pace possibile è fatica, impegno incessante, vigilanza, anche quando sembra raggiunta o scontata. E la risoluzione dei conflitti armati, il più logorante dei lavori. È una meccanica lenta con le sue leggi, dove la ragione è l'incognita più difficile da definire. È una meccanica di "relazioni" che si muove per esperimenti, tentativi, soggetta a troppe variabili. Una meccanica dii uomini e donne, negoziatori tra nazioni o mediatori nel silenzio di un villaggio, che non si arrendono a un mondo in cui ci si uccide a vicenda. Fare la pace è dolorosa pazienza che una vittoria militare non garantisce. Inizia quando si accoglie l’essenza dell’altro, il nemico, e dove nessuno vince tutto e nessuno perde tutto

A chi serve fare la Pace senza il nemico?

Ad oltre 2 anni dall'inizio della guerra in Ucraina né Volodymyr Zelensky né i suoi sponsor-burattinai atlantici accettano l'idea che la Pace, quella senza aggettivi, vada cercata con lo stesso nemico cui si muove guerra: diventa così esercizio di imbelle retorica la Conferenza tenutasi in Svizzera tra il 15 e il 16 giugno 2024 senza la Russia. Decisione che certifica come la soluzione pacifica del conflitto russo-ucraino non sia negli interessi e nelle intenzioni dei leaderini atlantici. Fuori dal nostro lato del mondo, invece, che siano le parti belligeranti a dover trovare i giusti compromessi per raggiungere la Pace appare questione dalla logica adamantina.

Fare "di quel suo andare, disarmo"

Su questa seconda linea di pensiero si muove l'ex architetta Awfa al-Naami[5], che con l"organizzazione inglese Safeworld prova a portare la Pace in Yemen – nel 2021 2° Paese al mondo per diffusione di armi da fuoco dopo gli Stati Uniti – che da "formatrice alla Pace" insegna alle donne delle comunità locali a mediare il dialogo tra i gruppi belligeranti.

È il quinquennio 2011-2015 a mettere lo Yemen sotto i riflettori del mondo democratico. La "Primavera yemenita" che porta alla sostituzione del Presidente-dittatore Ali Abd Allah Saleh[6] con il suo vice – Abdarrabuh Mansour Hadi, oggi in esilio – è il preludio alla trasformazione di un conflitto governo-popolo in guerra regionale: da una parte il movimento guerrigliero sciita Ansar Allah/Houti attivo dal 2004; dall'altra una coalizione di paesi arabi sunniti guidati dall'Arabia Saudita, con il beneplacito del Potere atlantico, per fermare un movimento alleato dell'Iran.
Nel 2024 l’intervento diretto dei bombardamenti anglo-statunitensi cristallizza la guerra in Yemen come crisi che incendia l'intero Mar Rosso e che trova il proprio spazio anche nella guerra al Medio Oriente scatenata da Israele.

In quasi 10 anni di guerra, la popolazione di un Paese che già prima era tra i più poveri al mondo si ritrova in una crisi sociale, economica e politica anche peggiore: oggi lo Yemen registra carenze di cibo e acqua potabile, dovuta anche all’impatto di fenomeni meteorologici estremi, oltre che di beni di prima necessità. Nel Paese mancano servizi sanitari di base – con la diffusione di epidemie come colera e difterite – ed è stato nei fatti cancellato il diritto all'istruzione primaria, con 2 bambini su 5 che non riescono ad andare a scuola.

Con una situazione del genere le armi trovano facili strade non solo per questioni culturali – vengono infatti usate anche come regalo d’amore – ma anche per commerci più o meno legali e per mutilare bambini: già nel 2019 l'Agenzia per lo sviluppo dell'Onu denuncia come ogni 9 minuti muoia un bambino di età inferiore ai 5 anni, spesso per aver giocato con residui bellici inesplosi o con quelle che Gino Strada chiamava "pappagalli verdi"[7]: mine antiuomo appositamente costruite per colpire i bambini.

In un Paese che diventa l'Eden per trafficanti, commercianti d'arme e signori della guerra il lavoro di persone come Awfa al-Naami non è un semplice fastidio ma un vero e proprio pericolo: "formatrice alla Pace" che prova a disarmare i giovani yemeniti – per cui in un Paese in guerra le armi sono spesso l'unico strumento di sostentamento per sé e la propria famiglia – viene accusata di gestire una rete dedita alla prostituzione che le costa 21 giorni di carcere e poi l'esilio in Gran Bretagna: «è come se fossi stata ripiantata in un altro suolo per il quale non sono adatta. Ma è dove sono al sicuro», racconta a Pasquini.

"Nonna" Pace

Nel capitolo de La meccanica della Pace dedicato ad al-Naami, Pasquini racconta anche la storia di «una madre, una nonna» di 70 anni «che non ha mai fatto nient'altro che curare la casa» finché, grazie al lavoro con Awfa, prende coraggio e inizia ad andare di «strada in strada»
bussa di porta in porta per strappar via quell'erba cattiva dalle mani di tutti i suoi figli, dai cuori dove ha messo radici in uno spazio più stretto di una stagione. Quell'erba che non serve a sentirsi uomini, armi leggere per uccidere facile. Awfa la incontra quando arriva dal Nord e fa, di quel suo andare, disarmo

Non conosciamo l'identità di questa donna, ma non importa. Anzi, identificarla in un corpo e in una biografia specifici priverebbe di forza il suo messaggio antimilitarista. Il primo disarmo inizia a casa sua, quando questa donna – che ricorda le Madres e le Abuelas dei desaparecidos argentini - impone agli uomini della sua famiglia di imbracciare le armi solo a lavoro, solo mentre si trovano ad uno dei check-point che, per la guerra, segnano il confine della città di Aden.

Da quel momento questa donna misteriosa inizia ad incontrarre i giovani in armi prima nella sua città, poi in tutto lo Yemen, usando come unico potere il dialogo e come arma la sua sola voce parlando di «rispetto, cura e pace», tutti valori «condivisi dalla comunità» e punzecchiando l'"orgoglio maschile” di chi si nasconde dietro un fucile e che, mostrando tutta la «debolezza» del verbo delle armi e della violenza, viene percepito allo stesso modo di quegli altri giovani che, con altre armi e altre violenze, vengono chiamati "terroristi".

"Community Violence Reduction": una soluzione comunitaria alla diffusione delle armi

Senza saperlo, quella donna misteriosa diventa "Madre" inconsapevole di un progetto allargato a tutto lo Yemen, portato nelle singole comunità che, lontane dal Potere, capiscono subito che «le armi sono un problema».
Dal 2006 le Nazioni Unite – con la risoluzione 1702 – chiamano questa pratica "Community Violence Reduction" (CVR) e la impiegano per la prima volta contro le gang ad Haiti come alternativa non-istituzionale dei programmi "Disarmo-Smobilitazione-Reinserimento" (DDR[8]), di cui condivide l'obiettivo di pacificare e mettere in sicurezza aree del mondo dove impera la sola legge della violenza armata: per questo entrambi i programmi sono stati usati sia in contesti bellici che in aree ad alta concentrazione di criminalità organizzata e gang. Ad oggi programmi CVR gestiti dall'Onu [.pdf] sono attivi in:

  • Repubblica Democratica del Congo, attraverso la missione Monusco
  • Repubblica Centroafricana (missione Minusca)
  • Mali (Minusma)
  • Darfur (Unamid)
  • Haiti (Minujusth)

Non al denaro, non al potere né ai voti...del complesso militar-industriale

Il lavoro svolto da mediatori-formatori come Awfa al-Naami mette al centro i bisogni della comunità locale in cui questi progetti operano: sono infatti le stesse comunità a definire gli obiettivi specifici e gli strumenti per raggiungerli, venendo di fatto responsabilizzate a prendersi cura dei propri membri e dei rapporti con le altre comunità.

Qualsiasi programma CVR è pensato per aiutare soprattutto i giovani, che in sistemi socio-economici poveri o con scarse risorse da offrire – in primis lavorative – possono essere attratti dal potere delle armi, che appartengano alle gang, alle mafie, al terrorismo o all'esercito poco cambia. Basta un giro in una qualsiasi periferia dove lo Stato abbia lasciato la gestione del territorio alla criminalità organizzata per capirlo. Non è un caso che in entrambi i programmi diventa fondamentale il coinvolgimento degli ex combattenti e delle donne che svolgendo questo ruolo trovano spesso il rafforzamento del loro ruolo all'interno della comunità.

La storia di Awfa al-Naami e della donna misteriosa di cui ci racconta Elena Pasquini ne La meccanica della Pace (di)mostra e al contempo fissa una serie di interrogativi sull'importanza di sviluppare progetti e spazi di antimilitarismo "orizzontale" – come mostra per l'Ucraina il più volte citato lavoro di Felip Daza Sierra – nati nella libera associazione tra persone e gruppi, soprattutto in uno scenario internazionale in cui al vertice della catena economico-alimentare ci sono solo leaderini politici devoti proprio al potere, al denaro ed ai voti del complesso militar-industriale.

Creare dialogo tra (ex) sordi: l'esempio della Colombia

Anche Juanita Millán Hernandez[9] e Nesly Rojas, come Awfa al-Naami, agiscono il dialogo in una guerra - quella in Colombia - che come il conflitto yemenita non ha alcuna intenzione di farsi sconfiggere dalla Pace: 220.000 vittime, per lo più civili, e 5,7 milioni di sfollati[10] è il risultato di un conflitto che dal 1960 vede il governo scontrarsi con gruppi guerriglieri come le Farc, nate nel 1966 come "esercito del Popolo" contro la privatizzazione delle terre e la successiva vendita alle società multinazionali e, oggi, note soprattutto come nodo della rete internazionale del traffico di droga.
Quella che per decenni ha insanguinato la Colombia è una guerra in cui di "buoni" se ne trovano davvero pochi, con i guerriglieri usati dai governi anche come "ufficio affari sporchi" per «silenziare attivisti, sindacalisti, leader contadini» e in cui, a trovarsi nel mezzo, è una popolazione poverissima e, di fatto, tradita da (quasi) tutti.

Tra chi prova a non tradire la sua gente c'è Juanita Millán Hernandez, che nel 2016 è l'unica donna nella delegazione di 17 membri della Marina inviati a l'Avana, Cuba, per provare a chiudere una trattativa di Pace portata avanti, in segreto, nei precedenti 2 anni e mezzo. Laureata in scienze politiche con un'esperienza da volontaria tra le vittime del conflitto durante gli studi universitari, Juanita viene prima scartata dalla Marina – che non accetta donne – per entrarvi in un secondo momento, con 3 anni di studio sulle Farc. Oggi Juanita Millán Hernandez è "Security Arrangements" dello Standby Team delle Nazioni Unite[11] e, in questo ruolo, viene inviata nelle zone di crisi per formare le persone – circa il 20% donne – come mediatori e mediatrici per i programmi CVR.

Porre fiducia nella transizione non-armata è un rischio?

Nesly Rojas arriva agli "Accordi di Cuba" solo nel 2023, quando la storia del conflitto colombiano parla già del fallimento degli "Accordi di La Uribe" (1984-1987) e delle trattative a Cartagena del 2016, entrambi frenati dal rifiuto di una parte dei guerriglieri di deporre le armi e provare la via politica, seguendo l'esempio dei leader Farc. Quando entra nel gruppo dei mediatori Nesly è un medico, ex guerrigliera di 2° generazione – entrambi i genitori lo sono – che sta tentando la cosiddetta "transizione" alla vita civile, nonostante lo stigma sociale sia ancora fortissimo tra le comunità locali: quando l'accordo di Pace viene sottoposto a referendum popolare i cittadini lo rigettano – con il 50,3% dei voti contrari, con il 63% di astenuti – e solo l'approvazione istituzionale, attraverso il Parlamento, lo renderà invece esecutivo.

Copiare la Pace (da chi prova già a farla)

Neanche il primo governo di sinistra nella Storia del Paese – guidato da Gustavo Petro, ex guerrigliero del Movimiento 19 de Abril – è ancora riuscito a rendere esecutivo il promesso piano per la "Pace totale". Una situazione resa ancora più difficile dai tentativi di colpo di Stato denunciati in queste ultime settimane dal Presidente in persona. È insindacabile, però, che l'Accordo del 2016 abbia in sé due punti di sicuro interesse e utilità non solo per la soluzione del conflitto colombiano ma anche per la guerra in Ucraina e, più in generale, per fare guerra alla Guerra.

Il primo di questi punti è la transizione alla vita civile per i membri della guerriglia che, come Nesly, decidono di deporre le armi. Una decisione tutt'altro che facile in una società che, ancora incapace di affrancarsi dal conflitto, vive con stigma e odio la presenza (ex) guerrigliera nelle proprie comunità, seppur all'interno di una Colombia – e in generale in America Latina – che ha già visto l'arrivo di ex guerriglieri ai massimi vertici dell'amministrazione pubblica: oltre a Petro i casi più noti sono quelli di Dilma Rousseff in Brasile o di José "Pepe" Mujica in Uruguay[12].

È un passo verso l'apertura di un dialogo tra parti che, altrimenti, continuerebbero a parlarsi con il solo vocabolario delle armi: è quanto realizzano, in piccolo, Kateryna Lanko, Olga Karach e Daria Berg – rappresentanti rispettivamente dei movimenti contrari alla Guerra in Ucraina, Bielorussia e Russia – nel loro incontro in Italia del febbraio 2023 [vedi Achtung Disertoren! #8].

Riparare la Guerra con il dialogo

Il nostro Paese, forte dei tanti esperimenti di "giustizia riparativa"[13] aperti tra ex militanti della lotta armata degli anni ‘70 e i familiari delle loro vittime[14] – ma usata anche nei processi per mafia - potrebbe svolgere un ruolo di primo piano nei processi di disarmo e pacificazione nel mondo: l'idea alla base è separare giustizia e vendetta, prendendo esempio dalla "Commissione per la verità e la riconciliazione" [.pdf] (1996) che costituisce uno dei momenti più importanti, o forse il più importante, nella Storia del Sudafrica post-apartheid. Da qualunque colore li si guardi, invece, i nostri governi preferiscono farsi pilastro del complesso militar-industriale, sfruttando un sistema giornalistico che lavora scientemente per instillare paura, violenza e cultura delle armi nelle menti e nei cuori della popolazione.

Verità e Giustizia per Mario Paciolla

L'Italia si trova coinvolta nel conflitto in Colombia, in modo indiretto, anche per un altro motivo – che non riguarda né il ruolo di Massimo D'Alema nel commercio delle armi nel 2022 - e che riguarda l'omicidio di Mario Paciolla, collaboratore "non allineato" della Missione di Verifica Onu, avvenuto il 15 luglio 2020 nella sua abitazione di San Vicente del Caguán, regione meridionale del Caquetá ed ex roccaforte Farc. Gli inquirenti locali, forti del sostanziale disinteresse della politica italiana, indicano nel "suicidio per impiccagione" la causa di morte: i segni sul corpo, l'immediata bonifica dell'appartamento e la necessità di rientrare in fretta in Italia – che Paciolla esprime negli ultimi giorni di vita – parlano nitidamente di "omicidio". Ma gli inquirenti di entrambi i Paesi vedono nell'archiviazione l'unica conclusione possibile.

La pace è una lingua indigena

Punto n.2: «La Pace l'hanno scritta le parole che servono a definirla» [grassetto mio, ndr], evidenzia Elena Pasquini nel suo libro[15]: proprio le parole scelte da Marina – espressione del governo – e gruppi guerriglieri per redigere l'accordo del 2016 sono uno dei punti nodali per riuscire ad instradare su un cammino comune due gruppi belligeranti che si sono odiati ed uccisi per decenni.

I militari non accettano una "riforma" delle forze armate – ma niente recriminerebbero sulla "trasformazione" delle stesse – e pretendono che dal testo ufficiale debba emergere in maniera inequivocabile che non può esserci "amicizia" tra governo e guerriglieri. Per questi ultimi è "pace" la parola da bandire e da sostituire con "fine del conflitto", così come parlare di "riconversione alla vita civile" è un modo alternativo per definire quel programma DDR nel quale una parte della guerriglia si disarma per trasformarsi in forza politica, seguendo l'esempio dell'Irish Republican Army. Entrambe le parti, però, convergono su un punto fondamentale:

doveva essere un processo colombiano, dii cui la Colombia avrebbe portato il peso e la responsabilità, doveva parlare la lingua della Colombia

Qualunque ne sarà il nome ufficiale, la Pace in Colombia passa dunque dalla formulazione di una lingua condivisa e "indigena", capace di trovare – o creare – un terreno comune fatto di dialogo e compromesso, necessaria a smantellare quel dizionario a mano armata su cui partiti e latifondi mediatici basano il racconto tanto della guerra in Ucraina quanto del piano di invasione del Medio Oriente sviluppato da Israele. Le parole scelte tanto dal regime di Putin quanto – soprattutto – dal Potere atlantico servono solo a mantenere la sempre più scarsa credibilità di certi leaderini e ad aumentare i profitti del complesso militar-industriale, lasciando a marcire una Pace che nessun Potere basato su profitto, sfruttamento e disuguaglianza sociale avrà mai interesse a trovare.

Per approfondire:

"Nessuno è troppo cattivo per diventare buono": l'esempio di "Ceasefire" a Cape Town

«La vita che abbiamo è l'unica che abbiamo» racconta un sicario dei Laughing Boys, una delle centinaia di gang che controllano le strade di Cape Town, Sud Africa, la città con il più alto tasso di omicidi al mondo e dove persino i poliziotti fanno finta di perdere la pistola d'ordinanza per venderla ad una gang o a un gruppo criminale. LB, "Ghetto Kids", "Only the Family" sono il contesto sociale entro il quale si sviluppa Le cicatrici di Cape Town, documentario di Pablo Trincia e Paolo Negro prodotto da SkyTg24 e Sky Documentaries realizzato da Chora Media e andato in onda tra il 24 ed il 26 aprile 2024.

Al centro del reportage l'attività dell'associazione "Ceasefire", creata nel 2010 dal pastore Craven Engel nella comunità in cui è cresciuto e che, con l'aiuto del "Cure Violence Programme" e della Città di Cape Town si è data l'obiettivo di togliere soldati ad una Guerra che, nello specifico contesto della città sudafricana, significa cercare di togliere manovalanza alle gang. Un lavoro che ha permesso ad Engel e agli altri membri di "Ceasefire" di guadagnarsi il rispetto e la stima persino dei capi dei gruppi criminal-militari.

Come Nesly Rojas, anche i collaboratori di Engel sono fuoriusciti dalla violenza armata per passare alla vita "civile": li chiamano "violence interrupters" e, dopo un periodo di formazione, vengono inviati nei loro quartieri di origine – di cui conoscono i codici culturali più profondi – mediando spesso tra le gang da cui si sono allontanati e che si scontrano in un conflitto senza senso, mosso dalla sola necessità di appartenere e difendere "confini" ancor più evanescenti di quelli che delimitano i territori proprietà dello Stato.

«Nessuno è troppo cattivo per diventare buono» [grassetto mio, ndr] sostiene Comi, oggi mediatrice e madre di 2 figli, nella mini-intervista con Pablo Trincia inserita nel documentario. La sua transizione al mondo civile inizia con una pistola che si inceppa nel momento in cui il membro di una gang rivale prova a spararle: è il punto di svolta che la convince a cambiare vita e operare tra la sua gente come mediatrice, per mostrare alle nuove leve delle gang che esistono alternative a quel mondo criminale che, dall'interno delle terre a svantaggio[16], sembra essere senza via d'uscita.

Come lei, anche Charmaine De Bruin passa dalla gang a "Ceasefire": oggi lavora con orfani e bambini vulnerabili per eliminare la cultura della violenza – non solo quella materiale – dall'ambiente dove i minori crescono; Glenn Hans lavora con "Ceasefire" per mostrare come l'attività fisica e la cura psicofisica di se stessi può costituire un primo passo per allontanarsi dai gruppi criminali, mentre Jeremy Davies, con gli "X Prison Ministries", ogni domenica indossa la divisa da carcerato per provare con l'esempio e il dialogo a fermare violenze e affiliazioni alle gang. Anche solo per un'ora al giorno. Anche solo un membro alla volta. Come per l'anonima nonna yemenita ogni membro di "Ceasefire", e delle tante associazioni simili attive nel mondo, fa "di quel suo andare, disarmo".


Questo articolo fa parte della serie "Achtung Disertoren!", l'approfondimento di Inchiostro Politico su antimilitarismo, guerra e diserzione sullo sfondo della guerra in Ucraina.


Note:

  1. Dal 2022 Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi Occupati. Per tale ruolo è di fatto ignorata dai latifondi mediatici italiani, tutti schierati in difesa del governo israeliano. Nel 2023 è autrice di "J'accuse. Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il terrorismo, Israele, l'apartheid in Palestina e la guerra", Edizioni Fuoriscena, 2023
  2. Franco Berardi Bifo, Lorenza Pignatti (a cura di), "Adbusters. Ironia e distopia dell'attivismo visuale", Milano, Meltemi Press, 2020, pp.13-14. Kalle Lasn è comunicatore, documentarista, attivista e dal 1989 fondatore – insieme a Bill Schmalz – della "Adbusters Media Foundation", organizzazione no-profit anticapitalista che pubblica l'omonima rivista canadese di critica radicale contro la pubblicità e contro il sistema socio-culturale.
  3. Nerofumo (a cura di), "Qui siamo in guerra. Anarchia, antifascismo e femminismo in Ucraina, Russia e Bielorussia. Scritti e testimonianze", Urbino, Edizioni Malamente, 2022, p.13. Il Comitato di Resistenza di Kiev raccoglie e coordina tutte le iniziative ucraine impegnate contro la guerra e contro l’invasione del febbraio 2022
  4. Elena L. Pasquini, "La meccanica della Pace", Varese, People Edizioni, 2022, p.14
  5. Le informazioni di questo paragrafo sono in parte riprese – per quanto riguarda la storia delle due donne – dal libro di Pasquini, pp.105-123
  6. In carica dal 1990 e ancor prima, come Presidente del solo Yemen del Nord, dal 1978
  7. Gino Strada, "Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra", Milano, Feltrinelli, 2015
  8. La procedura "DDR" aiuta la reintroduzione di ex guerriglieri, ex militari ed ex membri dii gang criminali nella società civile, fornendo loro sostegno sia materiale che finanziario, professionale, e se necessario psicologico, con l'obiettivo di rendere ciascuno di loro completamente autosufficiente, creando una forte alternativa alla possibilità di riprendere le armi
  9. Pasquini, op.cit., p.52-71
  10. Il dato, riportato da Pasquini nel suo libro, è ripreso da Historical Memory Group (a cura di), "Basta Ya! Colombia: Memories of War and Dignity. General Report" 2016
  11. Lo "Standby Team of Senior Mediation Advicers" è formato da esperti di mediazione di livello mondiale che possono essere rapidamente inviati, come consulenti a titolo gratuito, in zona di crisi per risolvere problemi e questioni legate ai processi di Pace o diplomatici, come progettazione e gestione dei processi di dialogo, trattative per cessate il fuoco, gestione delle risorse naturali e delle transizioni tra gruppi di potere.
  12. Si è già detto della militanza di Gustavo Petro nel M-19, movimento che si ispira al bolivarismo e al socialismo; Dilma Rousseff ha militato in gruppi diversi, ma tutti di ispirazione marxista, che hanno combattuto contro la dittatura militare instaurata in Brasile tra il 1964 ed il 1985, venendo anche torturata durante la carcerazione (1970-1973); José "Pepe" Mujica ha militato nei Tupamaros, movimento di ispirazione comunista, che ha combattuto contro la dittatura civico-militare che ha guidato l’Uruguay tra il 1973 ed il 1985
  13. In estrema sintesi, è un tipo di riparazione del torto che non passa dalla pena definita per via giudiziaria ma da una mediazione tra le parti, frutto dell'incontro – e dunque del dialogo – tra l'autore del torto/reato con la vittima o le vittime dl suo comportamento. Per approfondire: "Breve storia e filosofia della giustizia riparativa" (questionegiustizia.it)
  14. Per approfondire: Guido Bertagna, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato (a cura di), "Il libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto", Milano, Il Saggiatore, 2015
  15. Pasquini, op.cit., p.59
  16. "È sbagliato chiamare le periferie terre povere, sono terre a svantaggio perché nessuna terra vuole essere povera: sono abitate non da marginati ma da uomini fuori di vista perché c'è qualcuno che non vuole vederli", Enzo Avitabile, intervista Fanpage.it, 5 dicembre 2016 [video]

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