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(Vasco Brondi - "Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero")

martedì 29 ottobre 2024

La Pace "indigena" funziona meglio della Guerra umanitaria [Achtung Disertoren! #14]


Pace batte Guerra, dicono i dati. Per questo il Potere delle armi pianifica conflitti smantellando il dialogo tra i popoli con il debito e la propaganda. Il ruolo "sovversivo" della diplomazia popolare.


No peace, no justice under debt domination

Raccontare i tentativi antimilitaristi dei primi mesi della guerra in Ucraina, così come la storia e il lavoro di persone come Awfa al-Naami e Juanita Millán Hernandez, dei volontari "anti-gang" dell'associazione "Ceasefire" o il tentativo di ritorno alla vita civile di ex-guerriglieri come Nesly Rojas ha un duplice scopo: da un lato tenere i riflettori accesi su storie necessarie a costruire quell'altro mondo possibile e necessario in cui per ognuno valga la pena trovare un posto, dall'altro provare a rafforzare – per dirla con Elena L. Pasquini[1] la creazione di «un terreno comune per risolvere la incompatibilità tra uomini in lotta da secoli».

La Guerra si vince in tempo di Pace

Un progetto fortemente politico, nella più alta forma di gestione della res publica, che si pone come naturale contrasto ad una società che sempre più viene plasmata per essere gestita dal Potere delle armi e dalle sue politiche, dai suoi affari e dalle sue devastazioni di natura sociale, ambientale ed economica. Sotto quest'ottica semantizzare le «incompatibilità» di cui parla Pasquini in fratture[2] definite attraverso conflitti territoriali, etnici o religiosi – ma difficilmente di classe - serve il mero scopo di aprire nuovi mercati per chi trae profitto dal commerciare armi, che sia di natura economica, sociale o politica.

Mercati finanziari, mercati politici e, in primis, mercati culturali: la Guerra si costruisce in tempi di Pace, tanto quanto la Pace va cercata nei tempi – e nei luoghi – della Guerra e del conflitto. È tra le macerie della guerra che germinano i semi della società post-bellica, così come il conflitto si muove, in modo più o meno silente, nei gangli della società durante i periodi di Pace/non-conflitto: è nella Germania in ricostruzione dalla 1° Guerra mondiale che fa sentire i suoi primi vagiti quel nazionalsocialismo che costituisce il perno del secondo conflitto mondiale al cui interno, per riflesso, nascerà quella spinta antifascista che ha guidato, con alterne ondate autoritarie e repressive, la società democratica fino al tempo attuale.

La Pace funziona meglio della Guerra (almeno nel '900)

Spesso la pace duratura è stata preceduta da molti accordi, anche da cessate il fuoco falliti

scrive Pasquini ne La meccanica della Pace[3] riportando il risultato finale di uno studio realizzato da Madhav Joshi e Michael Quinn su 196 episodi di cessate il fuoco e accordi di pace trovati tra il 1975 ed il 2011. [Is the Sum Greater than the Parts? The Terms of Civil War Peace Agreements and the Commitment Problem Revisited]

Molto più ampio – ben 119 anni, dal 1900 al 2019 – è lo studio Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile[4] delle politologhe statunitensi Erica Chenoweth e Maria Stephan che, in più occasioni tra il 2008 ed il 2023, provano a rispondere alla domanda del titolo: come risolvere i conflitti? Dati alla mano, la risposta è così incontrovertibile da apparire tanto scontata quanto logica: intesa come progetto politico, sconfiggere la Guerra con la Pace funziona meglio che sconfiggerla con le armi, le divise e provocando conflitti. Nell'ampio periodo preso in considerazione, Chenoweth e Stephan registrano 325 campagne di resistenza civile nonviolenta "di massa" contro 303 indicate come "violente", con un incremento dal 1940 ad oggi

  • la resistenza civile ha avuto successo nel 59% dei casi, contro il 27% dell'azione violenta, nei casi di "lotte interne anti-regime", con un tasso dii mortalità di 1 a 22, rispettivamente
  • la resistenza civile ha avuto successo nel 41% dei casi, contro il 10% della resistenza armata, nel respingere le invasioni da parte di uno Stato straniero

Per traslare i dati numerici in esperienze concrete, Angela Dogliotti – ricercatrice del Centro Studi Sereno Regis ed ex segretaria del Movimento Nonviolento italiano – ricorda «il salvataggio della quasi totalità degli ebrei danesi sotto l'occupazione nazista»: un'azione oggi dimenticata ,anche dai libri di Storia, ma che diventa possibile proprio grazie all'impegno dell'azione nonviolenta, che nel caso specifico è l'unica risposta nelle mani del popolo danese. Un'esperienza che non a caso Hannah Arendt chiedeva di diffondere nelle facoltà di scienze politiche come esempio riuscito di lotta nonviolenta, sostenuta da coesione sociale e dal riconoscimento popolare nelle istituzioni, ma di cui oggi vi è labile memoria. Che strana coincidenza in questi tempi a guida bellicista, vero?

Per approfondire:

Le condizioni economiche (e altermondialiste) per la Pace

È un segreto di Pulcinella che la Guerra, per chi la combatte sul campo e per chi la subisce, non sia conveniente dal punto di vista economico, politico e morale. Rimane però un «volano sicuro per innescare nuovi cicli di accumulazione e la risalita del Pil» in mano a governi e gruppi di Potere [grassetto mio, ndr], come spiega il giornalista e attivista Paolo Cacciari in un discorso tenuto all'Università di Macerata nel febbraio 2023 a proposito del cosiddetto "Warfare State".

Ad impedire l'adozione di una "economia globale di Pace" non è solo il potere di veto del complesso militar-industriale, mosso attraverso il suo braccio politico-partitico, ma anche quella globalizzazione economica "deregolata" promossa e idolatrata dai governi occidentali e denunciata, tra le manganellate, dal movimento altermondialista agli inizi del nuovo millennio. «Occorre riconoscere», scrivono gli economisti Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky nell'appello Le condizioni economiche per la Pace

che le condizioni del sistema economico globale deregolamentato hanno reso le tensioni geopolitiche estremamente più acute

Di Guerra, debiti e regole universali "a intermittenza"

In sintesi, Brancaccio e Skidelski scrivono che il sistema di «globalizzazione deregolata» ha portato Paesi occidentali come Stati Uniti e Gran Bretagna – i due grandi elettori della guerra in Ucraina - ad accumulare «ingenti debiti verso l'estero» che, per conseguenza logica, si traducono in accumulo di crediti esteri per la Cina, vari Paesi orientali e Russia. Guarda il caso, alle volte, eh?

un'implicazione di questo squilibrio è la tendenza a esportare capitale orientale verso l'Occidente, non più soltanto sotto forma di prestiti ma anche di acquisizioni: una centralizzazione del capitale in mani orientali

La risposta dell'"Occidente" non segue però la logica capitalista che i Paesi atlantici perseguono, senza deroghe, quando indossano l'abito del creditore: per tentare di «contrastare questa tendenza», scrivono i due economisti nel loro appello, Washington e i suoi alleati provano a chiudere le proprie economie sotto una forma di protezionismo chiamata "friend shoring" («facciamo gli affari solo tra amici», traduce Brancaccio). Ciò che i Paesi atlantici creano, pur di non sottostare a regole internazionali che loro stessi hanno creato, è una forma di urFortezza economico-finanziaria che pone la Democrazia sotto assedio[5]

  • esacerbando le tensioni internazionali
  • creando condizioni favorevoli a nuovi scontri

In questo sistema, «i militari hanno vinto la guerra in tempo di pace», scrive ancora Cucciari su Comune-Info, perché «la nostra è già un'economia che funziona per e con la guerra», tanto da poter definire «l'economia bellica» come «il braccio armato dell’economia di mercato»

la guerra, prima di essere distruzione e morte è un sistema socioeconomico che si basa sulla minaccia permanente («si vis pace para bellum») sulla subordinazione degli Stati e dei popoli nemici, sulla sfida, sulla paura e sul terrore

Introduzione alla geopolitica del debito e del colonialismo umanitario

Awfa al-Naami dichiara ad Elena L. Pasquini che anche l'"opzione umanitaria" non è una buona soluzione per porre fine alla Guerra, anzi. Studi ormai consolidati, da cui muovono libri come La carità che uccide dell'economista Dambisa Moyo[6] o L'industria della carità della giornalista Linda Polman[7] mostrano nitidamente come anche il concetto di "aiuto umanitario" faccia ormai parte dell'economia bellicista di mercato: «Nutrire una nazione con gli aiuti umanitari», sostiene al-Naami, crea «uno Stato di dipendenza, quindi di conflitto tra le persone»[8].

Non è un'accusa priva di fondamento: l'idea di base dell'aiuto umanitario è considerata una delle declinazioni del colonialismo non armato dei Paesi più ricchi e industrializzati nei confronti del Sud Globale e, in generale, di aree povere o in via di sviluppo, comprese comunità appartenenti ai Paesi donatori. "Sanità coloniale" la chiama in un'intervista con ilManifesto nel 2006 Rony Brauman, ex presidente di Medici Senza Frontiere, qui ripresa dal sito Melting Pot; di "globalizzazione morale" «effettuata in nome dei diriti dell'Uomo cosiddetti universali» parla l'antropologo Bernard Hours, direttore emerito della ricerca all'Istituto francese di Ricerca per lo sviluppo (IRD).

Spesso è implicita l'idea che il Nord del mondo porti, per così dire, "soccorso" ad un Sud del mondo vulnerabile e questo attraverso il "sapere" dell'occidente. Storicamente l'aiuto umanitario è sempre arrivato "dall'alto", il che basa in fondo su un modello di superiorità applicato dal Nord nei confronti del Sud del mondo

Scrivono su Salute Internazionale Carlotta Carboni, Danielle De Vito Halevy e Maria José Caldés Pinilla. Eliminati dall'equazione gli aiuti materiali, la risposta macroeconomica a tale denuncia ricorda come ciò che definiamo "aiuto" sia, nella realtà, un prestito più o meno ampio che i Paesi che guidano il mondo concedono, attraverso le grandi banche internazionali, ai Paesi che ne fanno richiesta. E lungo questa direzione i debiti vanno ripagati, anche quando sono considerati "solidali".

Per approfondire:

La carità uccide. Come il debito pubblico

La solidarietà internazionale si trasforma così in uno strumento geopolitico che cancella totalmente l’intento solidale, in quella "carità che uccide" che Moyo individua analizzando un ampio periodo storico che va dalla guerra dello Yom Kippur (6-25 ottobre 1973) al 1988, anno di conclusione della guerra tra Iran e Iraq: l'aumento del costo del petrolio derivante dal conflitto arabo-israeliano – evento che certifica come la "guerra" non sia affatto esplosa il 7 ottobre 2023 – porta maggiori profitti per i Paesi produttori, che possono così depositare somme maggiori in quelle banche internazionali già attive nel prestare denaro ai Paesi poveri e in via di sviluppo.

Il sistema dura una manciata di anni: come conseguenza diretta del conflitto tra Baghdad e Teheran le banche centrali dei Paesi donatori alzano i tassi di interesse sui prestiti, rendendo impossibile ai Paesi riceventi ripagare i debiti – compresi quelli "umanitari" – e costringendone i governi ad una scelta dall'esito, comunque, nefasto:

  • chiedere altri prestiti, aumentando così il proprio debito pubblico verso l'estero
  • introdurre nelle politiche nazionali un pacchetto di riforme "strutturali" di stampo neoliberista, sviluppato dagli anni '50 dall'economista Milton Friedman e dalla sua Scuola di Chicago, che legano la concessione degli aiuti-prestiti alla stabilità politico-economica interna dei Paesi richiedenti: "solidità", nel gergo dei Chicago boys, significa introdurre governi autoritari, repressione delle libertà democratiche, privatizzazioni sfrenate e ampi tagli alla spesa sociale. La giornalista e attivista Naomi Klein, nel 2005, la definisce Dottrina dello shock economico[9]

La Pace "giusta"? Dal basso e indigena

Tra il 1972 ed il 1982, scrive Dambisa Moyo[10], il debito globale dei Paesi africani passa da 2 ad 8 miliardi di dollari: alle somme nominali da ripagare si aggiungono gli interessi maturati sul debito, umanitario o meno che sia. Agli inizi del decennio successivo, i Paesi debitori si ritrovano a restituire ai Paesi-donatori somme più alte di quanto ricevano, ma l'idea di cancellare il debito, in quegli anni come oggi, rimane solo una pessima canzone "buonista".

Gli aiuti umanitari si trasformano così in fattori di instabilità ad ampio spettro, inficiando l'economia e le scelte politiche del governo ricevente tanto quanto la vita delle persone che abitano nei Paesi debitori. È a questo punto che nasce la lista dei Paesi "da salvare" esportando democrazia e valori atlantici. Finito il denaro, la contropartita rimane l'accesso quasi libero e incondizionato alle risorse – naturali e non – che il Paese debitore ha da offrire.

Alla luce di questa situazione appare ancor più condivisibile il pensiero di Awfa al-Naami, che vede la Pace "possibile" solo se creata dalle e per le comunità locali – una Pace "indigena", per così dire [vedi Achtung Disertoren! #13] – e non imposta da forze esterne, ancor più se statali. La strada è tracciata proprio da quei processi di disarmo dei rapporti e delle dinamiche che generano conflitto, che sia lo scontro tra gang di cui si occupano associazioni come "Ceasefire" fino alle guerre che coinvolgono intere aree del mondo come quella in Medio Oriente. Sotto questo punto di vista, la Pace diventa "possibile" – e davvero "giusta" – solo quando smette di essere carità, e soprattutto carità "a mano armata", per farsi vera solidarietà. Come scrisse una volta il giornalista e scrittore Eduardo Galeano:

Non credo nella carità, credo nella solidarietà. La carità è verticale, quindi è umiliante, va dall'alto verso il basso; la solidarietà è orizzontale, rispetta l'altro e impara dall'altro

La congiura (pacifica) delle "Terre a svantaggio"

La guerra in Ucraina, scrivono in questi anni vari analisti, rappresenta un sostanziale cambio di paradigma nelle relazioni internazionali tanto quanto una profonda, ulteriore, spaccatura tra popoli e governi: se questi ultimi si fanno sempre più ancelle del Potere militar-industriale – usando in egual modo la repressione interna e la politica estera – i primi stanno (ri)proponendo una unione delle Terre a svantaggio[11], la creazione di un fronte internazionale di mutua assistenza antimilitarista dal basso che dimostra, in maniera incontrovertibile, come ogni conflitto porti con sé la sua conclusione non-militare, non-repressiva e non-genocida. Tutti gli esempi riportati in "Achtung Disertoren!" - dal rapporto di Felip Daza Sierra agli studi di Erica Chenoweth e Maria Stephan – mostrano l'esistenza di una alternativa al Pensiero Unico Bellicista

Le azioni di André Sheperd – il meccanico che nel 2004 rifiuta di collaborare alla guerra in Iraq non aggiustando gli elicotteri militari statunitensi – di Awfa al-Naami, Juanita Millán Herrnandez, della nonna che gira lo Yemen tentando di disarmarne la gioventù ai giovani che in Russia bruciano i registri di reclutamento portano sul tavolo una domanda ancor più obbligatoria della sua prima formulazione: perché affidiamo la ricerca della Pace a chi siede sul Potere delle armi e non a chi, da posizioni e con strumenti diversi, lavora ogni giorno per dichiarare guerra alla Guerra? Perché, parafrasando Tiziano Terzani, non lasciare che sia una «congiura» (antimilitarista) di queste popolazioni "a svantaggio" a riscrivere la strada per un mondo che abbandoni il conflitto come principale strumento di relazione geopolitica?

La domanda è volutamente ingenua, la risposta utopistica: lasciare alle persone comuni il potere di decidere su una questione così "intersezionale" come la Guerra, che ha un impatto devastante su ogni aspetto della vita, dall’occupazione alla spesa sociale fino alla qualità dell'ambiente, significa costruire il futuro di una società di pari, senza gerarchie né «sfruttamento dell’uomo sull'uomo»; significa costruire una società basata sulla negazione stessa del concetto di Potere. Un progetto che, è pleonastico evidenziarlo, non piace affatto a chi di quel Potere fa parte.

Lasciate ai popoli la diplomazia!

Oltre che utopistica, la risposta rappresenta anche un concreto progetto politico fin dagli anni '80, quando gli studi su Pace e nonviolenza[12], guardando all'esempio del fisico e attivista Robert W. Fuller chiamano questo approccio "diplomazia popolare", o "diplomazia dei cittadini" traducendo letteralmente dal nome inglese di "citizen diplomacy": ne fanno parte tutti gli strumenti, le strutture e le iniziative adottate da soggetti non governativi per risolvere conflitti senza ricorrere alla violenza. Tanto la Guerra in Ucraina quanto il progetto espansionistico di Israele nel Medio Oriente dimostrano il totale abbandono della diplomazia da parte dei governi – in primis dell'area "atlantico-democratica" – in favore di un sempre più forte Pensiero Unico Bellicista. È la trasposizione nella realtà di quel concetto, sviluppato dalla poetessa e scrittrice Audre Lorde[13], per il quale

gli strumenti del Padrone non smantellano mai la casa del Padrone

La diplomazia "dei cittadini" è oggi usata, ad esempio, nello status consultivo che le ong hanno in organismi internazionali come le Nazioni Unite o il Consiglio d'Europa, nei "controvertici" come i Social Forum altermondialisti, nei gemellaggi tra città e negli scambi culturali, così come nella collaborazione internazionale tra ong diverse, come insegna l'internazionalismo proprio dei movimenti altermondialisti o l'alleanza (possibile) tra gruppi che lottano per un mondo senza armi e organizzazioni per la protezione dell'ambiente.

Perché la Pace smantella il Potere

La diplomazia "dei cittadini" non verrà mai presa in considerazione da gruppi di Potere che amministrano la cosa pubblica: diffondere le pratiche di un progetto sociale, politico ed economico che si basa sulla auto-organizzazione popolare del dialogo e della relazione tra le parti costituirebbe una minaccia per il modo in cui il mondo è oggi organizzato, perché obbligherebbe una profonda ristrutturazione dello stesso concetto di Potere. Il diritto internazionale indica nel "popolo" e nell'"individuo" i soggetti giuridici titolari di quella sovranità che, impariamo fin dai primi anni della scuola dell'obbligo, amministriamo per delega attraverso lo "Stato": è proprio l'idea del "Potere delegato", sotto forma di democrazia "rappresentativa" che permette ai leaderini atlantici di trascinare le popolazioni in conflitti che il vero potere del popolo non vuole più sostenere.

Bonus track: Tiziano Terzani e la "congiura" dei poeti

Mi sono sempre chiesto, strada facendo, da dove sarebbe arrivata la soluzione al problema che affrontiamo, quello dell'umanità che mi sembra stia annaspando nella ricerca di una soluzione a quello che non va. Una volta, attraversando lo stretto di Malacca, in una di quelle belle serate in cui si stava sulla tolda nella nave a guardare il tramonto, vidi all'orizzonte decine di splendide isolette e mi venne la divertente idea che la soluzione sarebbe arrivata da una congiura di poeti. Perché soltanto la poesia mi pareva potesse ridarci una spinta di speranza. Identificai un'isola lontanissima, insignificante, che non era segnata su nessuna carta, ma in cui immaginavo crescesse una generazione di giovani poeti che aspettavano il momento di prendere in mano le sorti del mondo. Avevo in qualche modo il sentimento che non c'era una soluzione nei partiti, nelle istituzioni, nelle chiese, dove tutti mi ripetevano le stesse cose[14]

Note:

  1. Elena L. Pasquini, "La meccanica della Pace", Varese, People Edizioni, 2022, pag.2
  2. Nel 1967 Seymour Martin Lipset, sociologo statunitense e Stein Rokkan, politologo norvegese, elaborano una teoria sulla formazione dei partiti basata su 4 "cleavages" o, in italiano, "fratture sociali": frattura centro-periferia nella quale nascono le spinte autonomiste contro lo Stato centrale; Stato-chiesa, nella quale si forma lo scontro tra partiti laici e di ispirazione religiosa; città-campagna, con la nascita di partiti in rappresentanza della borghesia industriale e delle forze agrarie; capitale-lavoro, ovvero lo scontro tra i partiti "capitalisti" e i partiti di ispirazione socialista
  3. Pasquini, op.cit., p.62
  4. Erica Chenoweth, Maria J. Stephan, "Why Civil Resistance Works: The Strategic Logic of Nonviolent Conflitct", New York Columbia Univeresity Press, 2011. In italiano: "Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile", traduzione di Anela Dogliotti, Milano, Sonda Editrice, 2023
  5. Emiliano Brancaccio, "Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico. 50 brevi lezioni", Milano, Piemme Edizioni, 2022
  6. Dambisa Moyo, "Dead Aid. Why aid is not working and how there is another way for Africa", Londra, Penguin editore, 2010 – in italiano: "La carità che uccide: come gli aiuti dell'Occidente stanno devastando il Terzo mondo", traduzione di Lorenza Lanza e Paolo Vicentini, Milano, Rizzoli, 2011
  7. Linda Polman, "De crisis caravaan: achter de Scheermen van de noodhulp industrie", Amsterdam, Uitgeverij Balans, 2008 – in italiano: "L'industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra", traduzione di Laura Pignatti, Milano, Mondadori, 2009
  8. Pasquini, op.cit., p.118
  9. Naomi Klein, "The Shock Doctrine: The Rise of Disaster Capitalism", Londra, Penguin Books Ltd, 2005, in italiano: "Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri", Milano, Rizzoli, 2007
  10. Moyo, op.cit., p.47
  11. "È sbagliato chamare le periferie terre povere, sono terre a svantaggio perché nessuna terra vuole essere povera: sono abitate non da marginati ma da uomini fuori di vista perché c'è qualcuno che non vuole vederli", Enzo Avitabile, intervista Fanpage.it, 5 dicembre 2016
  12. Sul perché "nonviolenza" vada scritto come parola intera, così riporta Pasquale Pugliese su Comune-info: "scrivere nonviolenza in una parola, senza separazione o trattino, significa evitare di attribuirne una connotazione negativa di mera astensione dalla violenza, mettendo invece l’accento sulla dimensione positiva e costruttiva di un’altra modalità di agire nel mondo, personalmente e politicamente"
  13. Audre Lorde, commento agli intervenienti su "Il personale è politico" nell'ambito della "Second Sex Conference", New York, 19 settembre 1979. Nota ripresa da: "Sorella Outsider. Scritti politici", Milano, Meltemi Editore, ed.2022, p.111
  14. Tiziano Terzani, "La fine è il mio inizio. Un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita", Milano, Longanesi, 2006, p.338

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